MARZO

Racconto poliziesco di Macc Tony

Cosa dire, e cosa pensare, Cardona non sapeva. Lui era un poliziotto, e i poliziotti devono disporre di fatti concreti, di prove fattibili. Per cui non restava che procedere come al solito, alla ricerca di testimoni ai quali porre domande per ottenere risposte, risposte che seppure nella maggior parte dei casi non portavano alla risoluzione del caso però ci si avvicinavano. Emanuele Fardelli fino al momento di venire ucciso era impegnato nella realizzazione di un documentario televisivo a puntate sul cinema peplum che aveva furoreggiato in Italia dai primi anni ’50 alla metà degli anni ’60. 



Ricerche in archivio, interviste a superstiti di quell’aureo periodo: attori, registi, sceneggiatori, macchinisti, operatori; commento audio da inserire sulle immagini, più alcune ricostruzioni con figuranti: questo era il film televisivo che Fardelli stava realizzando. E gran parte del suo lavoro il regista-scrittore lo stava svolgendo a Cinecittà. E fu lì che Cardona si recò, intorno alle nove del mattino, dopo avere riaccompagnato a casa la vedova e averle raccomandato di stare calma, perché la sua inscrizione nel registro degli indagati era soltanto una pura formalità. 

Cinecittà si trova sulla via Tuscolana, non lontano dalla cineteca nonché dal centro sperimentale cinematografico che fin dalla seconda metà degli anni ’30 è presente in quella strada che nei tempi andati era aperta campagna mentre ora è la propaggine esterna della moderna Roma, vale a dire palazzoni privi di grazia nonché di grazie da rispondere al fatto di chiamarsi come la antica Caput Mundi e che di classico non hanno la benché minima rassomiglianza. La scritta “Cinecittà” campeggiava come un tempo sulla sommità dell’ingresso, sbarrato da un cancello e sorvegliato da una guardia privata. Cardona, che aveva lasciato la macchina a duecento metri da lì, si avvicinò al cancello.

- Buongiorno. Sono il commissario Cardona, del distretto Colle Oppio. – Mostrò il documento di identificazione. – Ho bisogno di parlare con qualcuno dei colleghi di Emanuele Fardelli.

- Il dottor Fardelli dovrebbe essere qui a momenti. 

- No – lo contraddisse Cardona. – Né a momenti né in seguito. Perché è morto.

L’agente non sembrò granché scosso. Lui era di quei romani che sembrano averne viste talmente tante da non provare più emozioni di alcun tipo. Flaiano aveva scritto:

“Noi crediamo di mettere al mondo dei figli e invece mettiamo al mondo degli antenati”.

A Roma non di rado sembrava avvenire così, perché certe facce parevano provenire da un passato risalente a duemila anni prima. 

- Allora? – disse il commissario. – Può mettermi in contatto con qualche collaboratore di Fardelli?

- Va bene – disse l’agente. Entrò nel suo gabbiotto, sollevò la cornetta del telefono fisso e compose un numero. Di lì a poco qualcuno all’altro capo della linea rispose e lui disse:

- Dottor Franceschi, sono Aldo. C’è qui davanti a me il commissario Cardona, che vorrebbe parlare

  con qualche collaboratore del dottor Fardelli. Posso farlo entrare? – Annuì col capo. – Va bene

Quindi si rivolse al poliziotto.

- Può entrare, commissario. Il dottor Franceschi le verrà incontro nei pressi del bar. Sa dove si 

   trova? A sinistra entrando, a trecento metri dall’ingresso. Tenga – aggiunse poi porgendogli un “pass” plastificato con tanto di molletta da appuntare sul risvolto della giacca. Cardona lo prese, notando la “V” di visitatore. Se lo appuntò sulla giacca, provando un leggero fastidio; gli pareva di essere un estraneo in visita a una fabbrica, e in effetti quella era – o meglio era stata – la fabbrica dei sogni per molti anni. Camminare nell’esterno recintato del Centro di produzione metteva addosso tanta malinconia. La tipica vegetazione mediterranea che a Roma si esprime principalmente nella pianta del pino dava all’ambiente la medesima solennità di un paradiso terrestre, di un Eden dopo la cacciata dei primi due esseri umani, pessimi elementi come gran parte della razza umana a venire. Un che di pace ritrovata per via dell’elemento espulso estraneo ad esso ma anche di noia aleggiava tutto intorno, diluita dalla tristezza relativa alla fine di un’epoca testimoniata dalle poche costruzioni per film esposte lì intorno: statue neoclassiche di guerrieri e vestali, cavalli ritti sulle zampe posteriori come davanti a un invisibile domatore, e la gigantesca testa di donna utilizzata nel film “Casanova” di Fellini emergente dalla finta laguna di Venezia.

Queste testimonianze aggiungevano un che di cimiteriale all’ambiente, quasi la consapevolezza da parte delle cose stesse che un’epoca con tutte le persone che l’avevano vissuta si era irrimediabilmente estinta dopo essersi in tutto il mondo gloriosamente distinta.

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