IL GIOCOLIERE DELLA LETTERATURA 20

- Avete fatto fumare i tasti della macchina - osservò Marie con un sorriso tra l'ammirato e il patetico.

- Cosa avete scritto?

- Le prime pagine di un poliziesco della serie che ho inaugurato cinquant'anni fa e che mai avrei creduto

sarebbe durato così a lungo.

Marie continuò nel suo sorriso, al quale aveva tolto la patina del patetico.

- Mi auguro che invece il personaggio continui a vivere.

- A vivere lui, di sicuro; in quanto a me…

- Mangiamo, ora, prima che si raffreddi tutto – intervenne Joseph. Così il trio entrò nella cucina e sedette ai posti già prefissati. Frédéric pensò che quella sarebbe potuta passare per la sua famiglia, lui il capostipite e loro i suoi figli.

Il pasto venne consumato in un silenzio interrotto soltanto dal televisore acceso, sintonizzato su un canale statale intento nel trasmettere il telegiornale. Di Frédéric Darc, non si parlava. E questo non poteva che fare il gioco della diabolica coppia.

Dopo la cena lo scrittore si ritirò: giocoforza, nella sua camera-studio, diede una scorsa a ciò che aveva scritto negli ultimi fogli, dopodiché si trasferì nel letto. Pensava al suo alter ego e allo stile che lo contraddistingueva, da sempre caustico e brillante. Ecco: era quella la sua vera vita, quello il suo vero mondo. Non doveva fare altro che ideare nuove storie, per poi immergersi fra i suoi personaggi, in primis il suo alter ego al quale durante tutti quegli anni aveva infuso la linfa vitale di se stesso, rendendolo simile a sé ma non uguale, per fortuna del personaggio. Gli anni, i decenni trascorsi lo avevano fatto avvicinare a quel suo disinvolto personaggio del primo periodo, e quando gli capitava di rileggerlo, dato che non ricordava certo tutte le storie da lui ideate e scritte, la sensazione che provava nello scorrere quelle vecchie pagine lo emozionava al punto da faticare a distaccarsene, e la sua era un’immersione non solo nel mondo fittizio, al filo con la realtà, bensì un reimmergersi nella propria giovinezza passata ahimè troppo in fretta.

Leggere di albe e di tramonti, di luoghi che il giovane commissario visitava, di scene d'azione o d'amore che affrontava era fare ritorno a quei tempi difficili, poveri, incerti ma -ora che era vecchio lo sapeva- fantastici. La scrittrice Anna Maria Ortese, confidando a un'amica il rimpianto di anni -di certo difficili ma di sicuro entusiasmanti (gli anni ’30-’40), definendoli anni meravigliosi, quando questa le aveva obiettato: “Ma erano anni terribili, c'era la guerra, la miseria”, le aveva risposto: “Eravamo giovani”. E questo, infatti, poteva e doveva bastare.

Anche il giorno successivo e quello dopo ancora la prassi fu la medesima: scrittura del romanzo mattina e pomeriggio, interruzione a pranzo e a cena, sonno ristoratore durante la notte. Quando il telefono squillava, uno dei suoi carcerieri che lo teneva con sé entrava nella sua camera, glielo passava e restava lì presente a controllare ciò che il prigioniero diceva. Dopodiché, quando si appressava l'ora di andare a dormire, il cellulare veniva spento.

Il mattino di venerdì Joseph non si recò al lavoro, perché quello era il giorno nel quale la somma di 50.000 franchi gli sarebbe stata versata. Aveva già avvisato i suoi capi e così, intorno alle nove, eccolo nella sua banca. All'impiegato con il quale in precedenza aveva parlato tese l’assegno firmato da Frédéric Darc, e lui -dopo avergli fatto firmare un documento inerente il rilascio della forte somma - gli consegnò i cinquantamila franchi in banconote da cento. Quindi Joseph Allegret se ne uscì, tranquillo e felice.

Di ritorno a casa, disse a Marie: - Tutto bene. Ora tocca a te.

La ragazza annuì sorridendo. Nella stanza occupata dallo scrittore la macchina per scrivere continuava a sfornare lettere su lettere, accumulando frasi su frasi, paragrafi su paragrafi, capitoli su capitoli.

- Vado – disse Marie diretta alla sua vecchia Dyane. Anche per lei le modalità da espletare furono le stesse, e così se ne tornò a casa come se nulla fosse. Erano quasi le undici.

- Adesso cosa facciamo? – chiese al suo compagno.

Questi sollevò le spalle.

- Pranziamo. Poi potremo prendere il treno per Amsterdam delle undici di sera. La mia idea già la conosci:

verso le nove usciremo di qua con il nostro benefattore dopo averlo cloroformizzato e rinchiuso nel

bagagliaio della sua Maserati. Quindi giunti al cimitero di Saint-Chef lo depositeremo all'interno della sua

tomba. Da lì ci dirigeremo alla stazione per salire sul treno per l'Olanda.

- Ma perché non lasciarlo qui? – chiese lei con espressione dispiaciuta.

- Te l’ho già spiegato il perché. Perché l'effetto del narcotico non dura ore per cui una volta ripresosi andrebbe difilato alla polizia e gli sbirri pur non sapendo dove siamo diretti controllerebbero tutti i treni che hanno lasciato la Francia. Per cui, o l’ammazziamo qui, oppure lasciamo che muoia nella sua stessa tomba dopo essere tornato in sé. Lo so che non si tratta di una bella morte, ammesso che ci sia una morte bella, ma non credo sia possibile un'alternativa.

La ragazza non rispose.


Antonio Mecca

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