IL RISORGERE DEL MALE 13

Avevo conosciuto anni prima un acrobata circense eccezionalmente bravo, una sorta di Houdini in grado di liberarsi dalle più diverse pastoie: manette, corde, catene, in poco tempo. Mi aveva insegnato qualche trucco, qualche piccolo accorgimento che si era rivelato utilissimo già in precedenti situazioni. Il guaio era che per meglio riuscire, il prigioniero doveva essere sveglio, cosciente, per poter avere così il modo di tendere o flettere i muscoli al momento del legamento e avere poi la possibilità di allentare le pastoie al momento opportuno. Comunque fosse, anche così qualche possibilità l’avevo. Il fatto di avere le mani legate dietro la schiena mi aveva dato il modo di lavorarci sopra non visto e di potere segare le corde tramite il cinturino metallico del mio orologio. Se me lo avessero tolto non avrei saputo cosa fare, ma essendoci ancora non mi era stato difficile aprirlo e usare l’affilata lama interna per segare le corde che mi immobilizzavano i polsi. Ora, pur essendomi liberato completamente, ero però pronto con uno sforzo di diverso tipo a far saltare gli ultimi legacci. L’amico, dopo aver riempito la siringa, avanzò verso di me con passo lento. 
- Ora ti farai una bella dormita che ti farà passare alla morte senza scali intermedi. 
Non dissi nulla. Nel mentre si chinava per scoprirmi il braccio destro, strappai del tutto i legami allentati e gli mollai un gancio alla mascella che lo mandò a finire lungo disteso sul pavimento. Non persi tempo a contemplarlo. Sia perché non ne valeva la pena, sia perché dovevo renderlo inoffensivo al più presto. Mi abbassai e gli afferrai il sudicio collo con entrambe le mani stringendo più che potevo. Gli occhi gli si strabuzzarono, l’osso del collo si spezzò. Mollai la presa e mi diedi da fare sulle corde alle caviglie. Non mi ci volle molto. Di lì a poco ero libero di alzarmi in piedi e di muovere quattro passi lungo la stanza per riattivare la circolazione. Sentivo che fuori c’era qualcuno; udivo rumore di passi e di oggetti spostati. Perquisii il cadavere e vi trovai una pistola a tamburo di grosso calibro. Ne controllai il caricatore: era nei suoi giorni migliori. 
Avanzai fino alla porta e la aprii con cautela. Nel corridoio non circolava nessuno, ma da una delle stanze provenivano delle voci. 
- Quando Sam avrà finito, trasporteremo quello spione fino al pozzo dove già si trova il suo collega e quindi proseguiremo per la città. Ho proprio voglia di passare una nottata di fuoco. 
Feci il mio ingresso con il revolver spianato. C’erano due uomini, lì dentro, che mi fissarono allibiti. 
- Che ne direste di anticipare il fuoco di alcune ore? – proposi. – Posso farlo per sei volte di seguito se l’arma non mi si inceppa. 
Dopo l’iniziale attimo di sorpresa uno dei due cercò di reagire mettendo mano alla pistola che portava nella fondina alla cintura. Sparai due volte, mirando al torace. L’uomo volò all’indietro e non si mosse più. L’altro cercò di fuggire, ma lo azzoppai sparandogli alla gamba destra. 
Uscii in corridoio, per vedere se vi si trovavano altre persone. Una c’era: un giovane dalla faccia brutta come quella di un essere nato dall’accoppiamento di una bestia con un essere umano. Gli puntai la pistola in faccia. 
- Chi altri c’è, oltre a te? 
- Siamo rimasti in quattro: gli altri sono andati via. Sentii un rumore alle mie spalle e mi voltai. Lo sciancato avanzava strisciando, con in pugno una pistola. Sparò nel momento in cui mi stavo voltando, ma sbagliò mira. Io no. Gli feci saltare la sommità della zucca con un proiettile calibro 38. Poi mi voltai verso il bipede dalla faccia di figlio della Morte. 
- Puoi ancora salvarti, ma niente scherzi. Usciti di qui mi porterai fino al pozzo dove avete gettato il cadavere del mio amico. Avvertii l’amaro in bocca mentre lo dicevo. Uscendo all’aperto potei constatare che era ormai notte e rividi di chiesa sconsacrata e il piazzale ormai desolatamente vuoto. La mia auto c’era ancora. Vi salii sopra dopo avere fatto scivolare l’uomo di lato, dalla parte del passeggero. Avviai il motore con la chiave che ancora portavo in tasca. 
- Forza. Dove si trova? 
- A due miglia da qui. Mentre guidavo, cercai di farlo parlare. 
- Chi sono gli incappucciati di ieri? 
- Un'organizzazione di neonazisti americani. Credono nel mito della razza pura, nella guida del Paese da parte di un gruppo scelto di eletti. 
- Eletti da chi? Non certo dal popolo. 
Non replicò. 
- Conosci la loro identità? 
- No. Io sono solo un inserviente. 
- Che magari non la pensa neppure alla stessa maniera… 
- Infatti. Ho bisogno di un lavoro, ma intendo sganciarmi al momento opportuno. 
- Che adesso è arrivato. Cosa sai dirmi dei numerosi omicidi di gente crocifissa con pistole sparachiodi? 
- Sono a conoscenza di questi omicidi - ammise, - e immagino che siano collegati al gruppo. Ma di più non so. 
Eravamo arrivati nei pressi del pozzo. Scendemmo dall’auto. Gli feci aprire il coperchio di ferro che lo chiudeva, dopodiché mi arrischiai a dare un’occhiata. Si scorgeva solo acqua scura. Nient’altro. Phil era lì. Gli feci richiudere il coperchio. Ero incerto su quale fine riservare all’uomo che mi stava di fronte. 
- Chi lo ha ucciso? - provai a chiedergli. 
- Sam. 
- È lui lo specialista del gruppo? Come lo ha ucciso? 
- Con una overdose di eroina. Non doveva aver sofferto. Non molto, per lo meno. E di sicuro non quanto avrebbe sofferto Linda quando lo avrebbe saputo. 
- Va bene - gli dissi. - Puoi sparire. Ti consiglio di filare e di evitare di metterti in contatto con i tuoi padroni. Okay? 
- Okay. Torno alla casa soltanto per prendere il mio guardaroba e l’auto. Annuii. Lo lasciai andare, osservandolo correre a ritroso lungo la strada appena percorsa. Forse avrei dovuto spedire pure lui all’inferno, perché quel tipo non era certo una brava persona capitata lì per caso. Ma non me la sentivo di agire con i loro stessi sistemi, per cui voltai i tacchi e risalii in auto, questa volta solo.
Antonio Mecca