IL RISORGERE DEL MALE 23

La città di Montgomery si andò profilando all’orizzonte. Le prime case ci accolsero con la loro modestia architettonica, seguite da edifici più imponenti anche se poco notevoli in quanto a stile. Poi fu la volta di tutto ciò che forma una città: semafori, lampioni, strade, edifici vecchi e nuovi, belli o squallidi, ben tenuti o decadenti; luci colorate al neon che infondevano una falsa vitalità con le loro arterie trasparenti dove sangue artificiale non circolante perché la capillarità era più che mai ridotta formavano un luminoso make-up piazzato sull’immobilità di un cadavere. Mano a mano che ci addentravamo nella città, cominciai a riconoscere dapprima determinati quartieri e poi a supporre dove eravamo diretti. La strada nella quale giorni prima il caro George aveva posteggiato la macchina per andare a trovare quella che avevo ritenuto essere la sua amante, si profilò davanti ai miei occhi. Fermai l’auto accanto al marciapiede e lasciai che la Ford diventasse un puntino meno grosso del quadrato che campeggiava sul mio monitor trasportabile. Il quadrato si fermò. Io scesi dall’auto, dopo avere preso da sotto il sedile una scatola e averla aperta. Dentro si trovava una superba calibro 45 più due caricatori. Era quell’arma il mio personale aspersorio, mediante il quale lanciare schizzi di piombo che avrebbero fatto schizzare all’inferno chi ne rimaneva malauguratamente colpito. Un silenziatore simile a un pistone completava la panoplia, tanto perché non mi facessi mancare niente. Mi diressi con passo calmo fino all’altezza del palazzo dal quale Walkermann era uscito giorni prima. La Ford Imperial era vuota. La finestra dell’appartamento dalla quale la volta precedente avevo intravisto il mezzo busto di una donna faceva ora trapelare la luce di un lampadario. Il portone era chiuso, ma non mi ci voleva mai molto per sottomettere serrature recalcitranti. Metodo Sanantonio, detentore di un arnese a metà strada tra il cacciavite e la penna che ben difficilmente non riusciva a forzare la serratura a lui sottoposta. Così fu anche quella volta. Aprii il portone e mi trovai in un vestibolo lussuosamente ricoperto di marmo dalle venature rosate, con di fronte uno scalone sempre di marmo, ma grigio, e alla destra un ascensore vecchio stile ma modernamente funzionante. Affrontai la scala, salendo fino al terzo piano. Su questo si affacciavano due porte, l’una di fronte all’altra. Erano porte di lucido legno, simili: porte e pianerottolo, a quelli che si trovano a Roma all’interno di massicci palazzi risalenti alla fine dell’Ottocento – inizio Novecento e occupati attualmente da hotel occupanti ciascuno un solo piano comprendente non più di una ventina di camere. Questi hotel sono anche denominati pensioni, forse perché una pensione media è appena sufficiente per pagare il conto del soggiorno di una settimana. Mi avvicinai alla porta dell’appartamento che ritenevo essere quello che si affacciava sulla strada. La targa di ottone recava l’intestazione Kermann. Evidentemente la prima parte del cognome di George doveva essersene andata a passeggio lungo il più vicino boulevard, fiancheggiato da alberi sui cui rami sarebbero ben presto penzolati i corpi senza vita di negri, ebrei, e altre sottorazze. Accostai l’orecchio al battente. Si udiva provenire dall’interno una sorta di mormorio di parole indistinguibili, che a un certo punto venne sovrastato dalla musica di una sinfonia di Wagner. Capitava a proposito. Per scrupolo saggiai la maniglia della porta, che restò ben chiusa. Quindi tolsi di tasca il mio piede di porco portatile perché mi aprisse consentendomi di entrare per fare una sorpresa agli individui lì presenti, che di porco non avevano solo i piedi ma soprattutto la testa. Quando fui riuscito nell’impresa, ecco che mi si offrì allo sguardo un largo corridoio piastrellato con larghe mattonelle risalenti a parecchi decenni prima. Alle pareti tappezzate con stoffa di velluto verde erano appesi diversi quadri. Quadri che riproducevano Hitler in uniforme, parate naziste durante gli anni della seconda guerra mondiale, battaglie nel deserto o in altri punti del globo occupati dall’esercito teutonico. La musica wagneriana proveniva dalla stanza in fondo al corridoio. Estrassi la pistola dalla cintura, vi avvitai il silenziatore, sbloccai la sicura e sollevai il cane, che produsse un secco suono metallico a me ben noto.
Antonio Mecca