IL RISORGERE DEL MALE 24

La pallottola era già in canna, perché un colpo in più non era comunque mai in più se destinato al tipo di feccia presente nell’altra stanza. Dalla porta aperta si riversava in corridoio una luce giallognola, malata, quasi il riverbero di menti tarate dal male. Mi avvicinai cautamente, senza però cercare di nascondermi. Li vidi prima che loro vedessero me. Erano in quattro. George, Gracida con il fratello, e Hitler senza più divisa. Ora vestiva in borghese, ora la pettinatura non aveva più il classico ciuffetto che così bene lo classificava, ora la voce non tuonava più come poche ore prima e molti decenni addietro. La faccia però era sempre quella: una faccia da deviato mentale, una faccia che era la oscena vetrina di ciò che al suo interno da non internato, purtroppo, si sarebbe trovato. Odio, pregiudizi, sangue da versare e una insaziabile follia che nella sua mente malata avrebbe comportato lo sterminio di intere razze, la deportazione di intere popolazioni, la sottomissione di intere nazioni. Se il diavolo esiste, questo è di certo incarnato in simili individui che devono portare morte e distruzione e sofferenze e disperazione a milioni di esseri umani colpevoli soltanto di non rientrare in determinati parametri, e di non potere godere delle grazie e della grazia dei boia di turno. Poi mi videro. Ci fu un sussulto, da parte loro, seguito da un attimo di indecisione. Il primo a riaversi fu il fratello della donna, che cacciò la zampa destra all’interno della tasca dei pantaloni. In taluni individui questo è un riflesso talmente incondizionato da non potersi bloccare, anche di fronte a un’arma spianata. Lo capivo, così come lui avrebbe capito la mia reazione. Gli sparai due volte, mirando al torace. Il rumore dei colpi attutiti dal silenziatore ricordò quello del tappo di due bottiglie magnum di champagne stappate per fare un brindisi: un brindisi alla morte di un farabutto. L’impatto dei proiettili lo mandò a sbattere contro una credenza al cui interno si trovavano piatti e bicchieri, i quali per l’urto si riversarono in parte sul pavimento. La sorellina fresca orfana e già stagionata vedova strillò, proprio come il suo nome che ricordava un gracidare di uccello che ha appena visto la sua prole cascare giù dal nido. Lei il suo nido lo aveva fatto nel Connecticut, cercando un povero ricco scrittore e avvolgendolo nelle sue spire al punto di renderlo dipendente da lei fino alla fine, alla quale lo aveva accompagnato e probabilmente anche agevolato nel farlo morire. Non era stata però esclusivamente colpa sua. Ciascuno nella vita si sceglie il comportamento che più gli confà. La donna si lanciò su di me, come una pietra scagliata da una balestra. La colpii con la canna ancora rovente della pistola slogandole e ustionandole la mascella, che si mise a penzolare come un cassetto scardinato, come il cassetto di un registratore di cassa l’ennesima volta che si viene a batter cassa, cosa che lei doveva soler fare spesso con il ricco marito. George aveva nel frattempo estratto quella che alla mia vista sembrò essere una 38 a canna corta e all’udito pure, dato che gli riuscì di premere il grilletto una volta prima di smettere anticipatamente perché raggiunto (ma non raggiante per questo) da un proiettile di 45. Proiettile che gli fece saltare l’arma, per via che era al braccio che lo avevo colpito. Hitler era vicino a me, e adesso che si trovava in quella situazione non sembrava più pericoloso come quando era in divisa e di fronte a una folla in delirio. Ora che intuiva essere giunta la sua, di ora, mostrava tutti i segni di spavento e di dubbi verso l’omaccione che gli stava vicino con in pugno una pistola che aveva già sparato tre volte e che minacciava di fare sentire la sua rauca voce altre volte ancora. Ma forse non ce ne sarebbe stato bisogno, perché sul vicino tavolo avevo notato un oggetto a me noto. Una grossa pistola sparachiodi posata sul ripiano. La afferrai. Era pesante quasi quanto la mia 45, e altrettanto efficace a corta distanza. 
- Dimmi chi sei, bastardo - gli dissi. - Dimmelo, prima che ti scoperchi la testa per vedere cosa dentro ci ribolle. Sembrava bloccato. Continuava a spostare il suo sguardo da me, alla mia pistola, al suo mentore ferito e accasciato sul pavimento. La musica di Wagner seguitava a imperversare, e il fatto che i suoi suoni coprissero i rumori da noi prodotti era l’unica cosa buona che avesse da offrire. 
- Sto aspettando - gli ricordai. - Ma non ancora per molto. 
- Io… - biascicò. 
- Cos’è? - mi informai. - Il volume dell’audio è sceso a livello zero? Lo colpii con la canna della 45 che adesso avevo spostato nella mano sinistra. Il colpo non fu troppo forte, ma più che sufficiente a strappargli un grido di dolore. Un altro grido, questo di natura diversa, si udì subito dopo. 
- No! - urlò Walkermann con voce straziata, quasi di madre alla quale stiano strappando dalle viscere il figlio appena concepito. 
- Parlate, farabutti. Chi sei, pezzo di merda? - chiesi nuovamente rivolto al neo-fuhrer. 
- Hitler - rispose lui con voce quasi piagnucolante.
Antonio Mecca