CRONISTA A ROMA 2

Passeggiata sull'Appia antica

Camminare sull'Appia antica, lunga ben 62 km rappresenta un'immersione non soltanto nella campagna romana ma anche nel passato dell'antica città. Per giungervi dalla stazione Termini basta prendere l'autobus che reca come destinazione: l'Arco di Travertino. Ed è giunti lì, nei pressi dell'omonima fermata metro che si scende per poi salire sul 660, un mini autobus che conduce al capolinea, nei pressi delle catacombe di Cecilia Metella. Da qui si diparte una strada lunghissima, interrotta trasversalmente di tanto in tanto da strade asfaltate percorse da automezzi. Anche la via Appia, fino a non molti anni fa, era percorsa da automezzi, una delle tante assurdità costellanti il firmamento di quel periodo forse un po' troppo rimpianto. D'altronde già Goethe diceva: "Questi uomini lavoravano per l'eternità: tutto essi hanno preveduto tranne la demenza dei devastatori, cui tutto ha dovuto cedere". Qualcuno del mondo politico e industriale ogni tanto propone di riaprirla al traffico, quasi non si rendessero conto - o più probabilmente non gliene fregasse nulla - di cosa questo significhi. Perché distruggere il delicato equilibrio che la vecchia e fragile strada rappresenta è cosa a dir poco scellerata. 
Percorrere a piedi o in bicicletta questa strada pavimentata con lastre di pietra scura risalenti a quei lontanissimi tempi e intervallata da ben più recenti cubetti di porfido tolti forse di mano ai rivoluzionari della domenica, significa immergersi nel passato glorioso dell'antica Roma, fatto sì di crudeltà ma anche di vittorie che la Caput Mundi seppe ottenere, e, soprattutto, di tutte le costruzioni, le ingegnerie, le piacevolezze edilizie che fior di architetti e ingegneri seppero ideare, edificare e di cui anche il "populusque" romano e del circondario poté godere: fogne, terme, fontane, pozzi, acquedotti. Quest'ultimo ancora impera, seppure logicamente solo a pezzi, ma la maestosità della costruzione ancora sbalordisce per le sue imponenti dimensioni, per gli archi a volta, per il loro sovrastare sulla sottostante campagna. Una campagna che è la stessa di secoli fa, con greggi di pecore che ogni tanto i posteri dei pastori di allora conducono a brucare. Varie tombe di quel lontanissimo periodo si trovano ai lati della stretta via, sono monumenti che cercano di tramandare nel tempo una ristretta rappresentanza della "gens" di allora. Automezzi ogni tanto ne passano, appartenenti a chi abita nelle ville nascoste nella vegetazione, oppure auto dei carabinieri, della guardia medica, del servizio rifornimento cibi. Ma questo è ancora sopportabile, perché di vero e proprio traffico non si può certo parlare. Delle creature viventi, nelle quali capita spesso di imbattersi, quelle dei gatti la fanno da padrone. Sono in genere begli animali, non sporchi e non carenti di cibo o: al contrario, sovrappeso. Ne incontro uno - che in seguito mi verrà detto essere una in quanto femmina - che mi osserva al di là di un reticolato. Mi affianca per qualche metro, dopodiché si deve fermare. Quando dopo un dieci minuti sono di ritorno, lei è in mezzo alla via, ad aspettarmi. Mi viene incontro, il pelo scuro e lucido, gli occhi grandi e belli. La accarezzo, dopodiché le offro l'unica cosa da mangiare che possiedo: una pralina di cioccolato che la bestiola accetta volentieri. Quando ha finito di mangiarsela, mi accompagna per un tratto di strada, forse per sdebitarsi, e quindi si ferma. E fa bene: ha la fortuna di vivere in un paradiso terrestre, e dovrebbe abbandonarlo per seguire me? Nel piccolo e grazioso bar nei pressi della fermata del bus mi fermo anch'io per bere una bottiglietta di un'acqua minerale originaria della zona, davvero buonissima. La rusticità del luogo si riversa anche nel personale, di carattere semplice e simpatico ma sempre di carattere, come il popolo romano sempre è stato. All'interno c'è un cortile in cui trovano posto una decina di tavolini, e dove si può bere e mangiare qualche pietanza precotta, oppure semplici panini accompagnati da bevande. Di sera deve essere più suggestivo ancora, e forse capace di farci dimenticare l'orrore nel quale siamo incautamente precipitati. 

Antonio Mecca

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