Emilio De Marchi e Il cappello del prete

Lo scrittore Emilio De Marchi, nato nella nostra città il 31 luglio 1851 e morto - sempre a Milano - appena 49 anni e mezzo dopo, il 6 febbraio 1901, famoso per essere l'autore dello splendido romanzo "Demetrio Pianelli" pubblicato nel 1890, può essere considerato anche uno dei precursori del romanzo nero poliziesco essendo l'autore de "Il cappello del prete", pubblicato a puntate nel 1887 sul quotidiano milanese "L'Italia del Popolo" e poi: nell'aprile 1888 sul "Corriere di Napoli". In quello stesso anno l'editore Treves lo pubblicherà in volume, e in breve arrivò a vendere decine di migliaia di copie. Per questo bravo scrittore, che aveva esordito nel 1878 con "Due anime in un corpo", fu il successo letterario, confermato e avvalorato dalle successive traduzioni negli Stati Uniti, in Germania, in Francia, in Inghilterra, in Ungheria e in Danimarca. De Marchi si era laureato in Lettere nel 1874 all'Accademia Scientifico Letteraria di Milano, dove in seguito sarà segretario e quindi libero docente di Stilistica (vale a dire: arte del comporre). Nella sua arte fu fedele ai consigli del Manzoni, che predicava il rigore morale del realismo, con romanzi - quali i libri già citati - nonché "Arabella", "Giacomo l'idealista" più diversi volumi di racconti.
 "Il cappello del prete" è ambientato nella Napoli del 1875, e vede come protagonista - ma non certo eroe - il quarantacinquenne barone Carlo Coriolano di Santafusca, che in pochi anni ha dilapidato l'eredità paterna più che altro al gioco e lapidato se stesso sotto innumerevoli cartelle ipotecarie e debiti di gioco. Prossimo ormai all'arresto per un debito di 15000 lire, uccide un prete usuraio e poi ne occulta il cadavere nello scantinato della sua villa alle falde del Vesuvio, derubandolo di tutti i soldi che il prete ha portato con sé. Il cappello però resta a terra dimenticato e sarà il cane di Salvatore: domestico del barone, a portarlo al suo padrone. Questo cappello finirà per essere la prova inconfutabile della colpevolezza del barone, il quale crollerà nel finale del romanzo sotto le domande sempre più incalzanti del giudice. Seppure il sia un ateo convinto che asserisce essere l'uomo nient'altro che polvere al quale negare così diritti e doveri, piano a piano finisce per venire sommerso dai sensi di colpa e tradirsi così nel finale della storia. Nella prefazione al romanzo De Marchi scrisse tra l'altro che dopo il grande successo popolare da parte del pubblico dei lettori, si era "chiesto in cuor suo se non hanno torto gli scrittori italiani di non servirsi più che non facciano di questa forza naturale per rinvigorire la tipica costituzione dell'arte nostra. L'arte è cosa divina; ma non è male di tanto in tanto scrivere anche per i lettori". Parole sante alle quali i letterati nostrani fanno da sempre orecchio da mercante, finendo per produrre romanzi come "Arrivano i pagliacci" o "Il porto di Toledo", il primo stroncato anche dal grande critico Angelo Guglielmi e rimasto fuori catalogo per dieci anni mentre il secondo fu ritirato dalle librerie poco dopo essere apparso e -in seguito- sottovalutato dall'autrice stessa. De Marchi con "Il cappello del prete" si ispirò forse al romanzo di Dostoevskij "Delitto e castigo", uscito nel 1866 e scritto per far fronte ai debiti di gioco. Solo che lo scrittore russo cercò tramite la stesura del suo romanzo di saldare i debiti riuscendoci solo cinque anni dopo, mentre il protagonista spiantato (che come una malapianta sarebbe giusto spiantare letteralmente e gettare nella discarica) del romanzo dello scrittore italiano preferì fare come Raskolnikov, il protagonista  di "Delitto e castigo", il quale uccide l'usuraia e la sorella per appropriarsi del suo denaro. Denaro che più che fornire felicità procura problemi a non finire finendo per causare la fine anche degli stessi richiedenti.

Antonio Mecca

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