GIALLO A VERBANIA 14

Aspettai per un minuto. Poi la stessa voce si fece nuovamente sentire, dicendo: - Venga pure. Ma potrà restare per non più di dieci minuti. La signora è molto stanca e ha bisogno di riposare.

Il pensiero mi andò a quei due giovani che pur non essendo stati probabilmente stanchi riposavano loro malgrado già da vari giorni. Il cancello si aprì lentamente spalancando le sue pesanti porte verso l’interno. Percorsi il sentiero ricoperto del secco fogliame caduto dalle piante circostanti. Arrivato alla breve scalinata in pietra che immetteva all'ingresso, la porta di casa si aprì e la figura di un uomo intorno alla settantina si stagliò sulla soglia. Io, che ero intento da prima della sua apparizione ad osservare la facciata grigia e marrone della casa accomunandola a quella della basilica di San Pietro dopo il restauro, nel vedere apparire l'uomo mi venne da pensare a un San Pietro in-sedicesimo che affacciatosi sulla soglia del sacro soglio fosse lì per selezionare gli arrivi.  

- Buonasera - lo salutai avanzando e gli mostrai il distintivo. - Vorrei parlare con la signora per qualche minuto. 

- Ecco: qualche minuto è il termine giusto e non più di cinque il termine esatto per porre termine al colloquio. Mi segua. Lo seguii in un atrio lussuoso che immetteva in un soggiorno spazioso. Seduta su una vecchia poltrona c’era un’anziana signora. La differenza con la poltrona stava nel fatto che questa poteva definirsi antica, e quindi valorizzarla. I suoi capelli bianchi, come la veste che indossava, parevano riflettere la luce della luna quando splende come argento nel cielo notturno. Calzava scarpe marrone chiaro e aveva un viso la cui pelle era divenuta rugosa nonostante forse, il tentativo fallito di rendere nuovamente liscio quel viso che da giovane lo era stato. Quando la donna mi vide, sorrise. La sua bocca dipinta con un rossetto di rosa tenue, color ciclamino, si aprì a scoprire una dentatura bianca. Gli occhi invece avevano mantenuto una luce intensa, che sembrò illuminarmi con spietatezza.

- Buonasera, signora – la salutai. – Scusi l’intromissione.

- Non ho ancora cenato, ma uso farlo comunque tardi. Così poco dopo mi riesce di addormentarmi e, dopo non molto, mi risveglio per non riprendere più sonno. La vecchiaia, giovanotto, è una cosa schifosa. Non lo disse con tristezza, ma con calma rassegnazione. Quando si arriva ad oltrepassare di molto la linea che divide la maturità dalla vecchiaia, spesso non si prova più alcun sentimento di amarezza. Fu allora che scorsi la fotografia. Era incorniciata d’argento, una foto di grande formato, e mostrava nel nitido bianco e nero di un tempo lontano una ragazza con un fucile mitragliatore. Portava i capelli, scuri e lisci, lunghi fino alle spalle. Gli occhi erano scuri altrettanto ma privi della soave bellezza di quei capelli, perché recavano in loro la durezza di ciò che avevano visto, e subìto. Anche la bocca: piccola e decisa, aveva un che di amaro e sprezzante. Le gambe, lunghe e bianche, venivano messe in mostra dalla gonna che arrivava non oltre il ginocchio.

- È lei, la ragazza ritratta? – le chiesi.


Antonio Mecca



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