Il Giallo Delle Ore 8

INDAGINE IN BIANCO E NERO
capitolo uno

Me ne stavo seduto dietro la scrivania del mio ufficio dislocato in un vecchio palazzo sull’Hollywood Boulevard, costruito cinquant’anni prima. Ero intento ad ascoltare da una antica radio in radica una vecchia canzone dell’età del jazz, risalente al 1920, l’epoca d’oro della musica di Gershwin, Porter, Berlin. Era una musica in bianco e nero che si adattava all’universo monocromatico nel quale ero avvolto sin dalla nascita perché afflitto da acromatopsia, dall’incapacità cioè di vedere e di distinguere i colori. Ero insomma uno dei pochi individui immersi in un mondo composto di tre sole gradazioni di colore: bianco, nero e grigio. Per me i primi decenni fotografici del XX secolo non erano mai finiti, e mai lo sarebbero stati. Ma essendo nato così, ci facevo poco caso.
Il campanello tintinnò del suo caratteristico suono argentino, un suono che visualizzavo come un colore grigio ma luminoso. Mi alzai quasi in un prematuro segno di rispetto verso chi era entrato e, nel varcare la soglia che dall’ufficio immette nell’anticamera, mi trovai di fronte a una ragazza molto attraente, una figura femminile giovane, bella, di giuste proporzioni e alta sul metro e settantacinque, nel viso, dai bei lineamenti, splendevano due occhi, dei quali non potevo ovviamente distinguere il colore, ma la cui intensità di luce era in grado di incantare chi aveva il privilegio di fissarli. L’abito scollato che indossava metteva in risalto la parte superiore di un magnifico seno. Il ventre poi era splendidamente piatto e le gambe, che una saggia perché corta gonna scopriva fino a metà coscia, calamitavano lo sguardo che era poi difficile deviare.
Quando mi vide apparire sorrise, e quando sorrise mi sembrò che il grigiore della mia esistenza andasse attenuandosi per assumere i colori dell’arcobaleno che mai avevo potuto distinguere.
- Il signor Mallory, vero?
- Si, il signor Mallory - confermai.
La sua voce era carica e sottesa di sensualità a stento repressa, una sensualità che però poteva anche essere il risultato di un solenne raffreddore da fieno.
- Si accomodi, signora…
Esitò nel dare la risposta solo per un attimo.
- Barnes - rivelò. - Johanna Barnes.
Quel cognome sembrava suggermi qualcosa, sebbene ancora non sapessi dire cosa.
Mi spostai di fianco, per consentirle di entrare sfiorandomi il fianco, e ne ricavai una scossa simile a quella che si prova nello sfiorare con le dita una presa elettrica.
Chiudendo la porta con la parte superiore di cristallo gettai un’occhiata a quello che vi avevo fatto dipingere sopra: Philibert Mallory, Private Investigator.
Le indicai la poltroncina di fronte la scrivania, per poi andare ad occupare la mia sul lato opposto. Quindi spensi la radio, che avendo terminato di trasmettere la canzone precedente aveva attaccato con una di molti anni dopo ma ugualmente bella eseguita da George Benson.
- Mi dica pure, Miss Barnes - la invitai a parlare.
- Signor Mallory, posso fidarmi di lei, vero?
Ed erano già due i “vero” da lei pronunciati. Assunsi sul viso un’espressione che voleva dire:
“Non vedo perché no”. Quindi risposi:
- Certo, che può fidarsi. Pur non essendo un prete, sono ugualmente tenuto a mantenere il segreto
professionale.
Il suo bel viso divenne serio, si oscurò. E iniziò a raccontare.
- Sono nei guai, Mister Mallory. Guai grossi. Sono una donna sposata, ma ho anche un amante. O almeno l’ho avuto fino a qualche ora fa, poiché adesso è morto. Ucciso. Da un colpo sferratogli in testa con un pesante corpo contundente, credo fosse una pistola, da un uomo di cui non sono
stata in grado di vederne il volto perché mascherato da una calza di donna. Dopo avere ucciso John, il mio… amante, ha colpito anche me, alla testa, sebbene la botta non fosse mortale come quella data a lui.
Mi indicò con un dito: l’indice della mano destra, la parte anteriore della testa dove un bozzo rossastro campeggiava.
Pensai che un volto maschile dietro una calza femminile non rappresentasse poi una gran novità.
- Devo essere rimasta priva di sensi per un’ora - continuò la donna - e quando li ho riacquistati John era morto e la mia collana scomparsa.
- La collana è un dono da parte di suo marito? - Le chiesi.
- Sì. Una collana di diamanti molto bella e molto costosa, perché molto preziosa.
- Del valore…?
- Di 100.000 dollari - mormorò con sconforto.
Mi trattenni dall’emettere un fischio perché non era buona educazione farlo.
- Ho preferito non rivolgermi alla polizia per ovvie ragioni. Per questo ho pensato di mettermi in contatto con un detective privato.
- La sua scelta è avvenuta in base a quale criterio? - ci tenni a sapere.
- Quello delle informazioni telefoniche - spiegò. - Ho chiesto all’operatore di indicarmi l’agenzia più vicina alla zona nella quale mi trovavo, ed è risultata essere la sua.
Col bel risultato di rendermi correo di un assassinio.
- Cosa si aspetta da me? - replicai. - L’identità dell’assassino o soprattutto il recupero della collana?
- Ho bisogno di rientrarne in possesso - quasi supplicò. - Se mio marito si accorge della sua sparizione, per me sono dolori.
- Può sempre inventarsi una rapina… - suggerii.
- Sì, ma temo di crollare di fronte all’interrogatorio della polizia. Non sono molto brava nel mentire.
Evitai di riderle in faccia. Dissi, invece: - Suo marito è James Barnes?
- Sì.
So che Barnes è uno dei maggiori fabbricanti di armi che circolano nel nostro Paese, e che: con tutti i pazzi in libera uscita, e qui non si parla solo di delinquenti, il commercio delle armi da fuoco è sempre fiorente.
Pensai che per lui prelevare dalla rastrelliera un’arma della propria produzione, fosse cosa estremamente facile. E dopo averla uccisa inventarsi una giustificazione sul tipo di quella fornita dall’atleta Pistorius, che aveva ammazzato la propria bella moglie sparandole attraverso la porta del bagno perché credeva dietro ci fossero i ladri. Probabilmente era stato Barnes a sguinzagliare uno dei suoi sgherri per assassinare l’amante della moglie ma non la moglie, e questo perché a lei ancora doveva tenerci. Per lo meno al momento.
- Quanti anni ha suo marito?
- Settantadue - rispose lei con rassegnazione. Valutai che la distanza in anni fra i due dovesse aggirarsi sulla quarantina. Del resto i soldi sono piacevoli sia che a fornirli sia un ventenne, sia che si tratti di un settantenne. Sebbene la mano - e non solo la mano - che li porge abbia di certo la sua importanza.
- Siete regolarmente sposati? E da quanto?
- Da quasi cinque anni. Sposati in municipio.
Annuii. Dissi poi:
- Va bene. Mi accompagni nella casa dove si trova il suo ex, che immagino sia stata anche la sua, di casa…
- Sì, è così. - Si alzò, decisa. - La accompagnerò con la mia auto.
Uscimmo dagli uffici dell’agenzia, ma prima di ritrovarci in strada tolsi dalla tasca interna della giacca gli occhiali da sole e li inforcai.

Antonio Mecca

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