SINDACATO E GREEN PASS: UNA FACCENDA GROTTESCA O NOCIVA?

La vicenda che oppone il Sindacato Confederale al resto del Mondo sulla questione dell'obbligatorietà del Green Pass per accedere al luogo di lavoro per certi versi comincia ad apparire grottesca, per altri (più seri) sembra indicare che sia in atto un mutamento dell’approccio sindacale alla realtà del lavoro. Cerchiamo di fare il punto: il Sindacato sostiene che finora nelle aziende è andato tutto benissimo grazie ai Protocolli firmati l'annot scorso, e al senso di responsabilità di tutti nel rispettarli. Vero, bravi! Ma è evidente che l'anno scorso il vaccino non c’era e occorreva arrangiarsi. Adesso è possibile una protezione molto superiore, sarebbe inspiegabile non utilizzarla. Ma, e qui cominciamo a scivolare nel grottesco, il Sindacato dichiara di temere che il Protocollo sulla sicurezza potrebbe essere trascurato “se fosse emanato un provvedimento per utilizzare il Green pass al loro interno: le aziende non possono pensare di risparmiare sui costi per la sicurezza”. Come se le imprese fossero soltanto in attesa di un provvedimento che consentisse loro di non applicare più i Protocolli firmati col Sindacato, in vista di chissà quale risparmio. Un’idea stravagante, attribuibile soltanto a una mentalità paranoica o a un'ideologia per cui impresa e lavoro sono conflittuali; entrambe idee poco utili per il Sindacato, visto che Sorel e Cremaschi appartengono al passato. Un approccio che tuttavia ritroviamo in un’altra affermazione delle Segreterie Confederali: “non saremo mai disponibili ad accettare che il Green pass venga utilizzato in modo surrettizio per cambiare mansioni, per licenziare o per fare modifiche dell'organizzazione del lavoro, magari destinando ambienti ai vaccinati e altri ai non vaccinati”. Un appello contro l’apartheid vaccinale da fare invidia ai no vax! Ma più preoccupante è l’affermazione, spesso ripetuta, per cui le imprese non aspetterebbero altro che il Green Pass per licenziare e ristrutturare. Grottesco: come se non potessero farlo in qualsiasi momento, come ben sappiamo, o come se, ove ne avessero bisogno, aspettassero che i candidati al licenziamento non si vacinassero. E se invece fanno il Green Pass cosa fa l'azienda: non ristruttura più..? Qui siamo al di là del grottesco, siamo ad un racconto infantile di cos’è l’impresa e di come funzionano le relazioni industriali. Ma purtroppo c’è di più: il Sindacato ha rifiutato di prendersi la responsabilità di un accordo con le imprese che stabilisse del Green Pass per accedere al posto di lavoro: forse ha ragione quando sostiene che un simile provvedimento, che incide sui diritti dei cittadini, deve essere assunto con uno strumento di legge. Come infatti è stato fatto per il comparto Scuola. Senonché il Sindacato non accetta che tale strumento, che stabilisce un obbligo preciso, preveda poi delle sanzioni per chi non lo rispetta. Curioso, per chi rivendica (giustamente) sanzioni esemplari per chi non rispetta le leggi sul lavoro: imprese, consulenti, appaltatori, caporali, ecc.). Sicchè, secondo le ultimissime grida del Sindacato, il personale della scuola non vaccinato, e quindi cui sia precluso l’accesso alla scuola e perciò la possibilità di svolgere il proprio lavoro, non dovrebbe essere sospeso senza stipendio. Dunque dovremo farlo lavorare, ma come? Facendogli ogni giorno un tampone! Ma sia ben chiaro: il tampone non se lo paga lui, bensì lo Stato, che è il suo datore di lavoro. E qui il grottesco straripa nel surreale..! Non soltanto io non rispetto la legge, ma tu, datore di lavoro, devi pagare per consentirmi di farlo! Tanto piace questa idea che si pensa di estenderla al settore privato, con costi naturalmente a carico delle imprese. Parafrasando quel che si diceva un tempo, il sonno della ragione genera minchiate… Ma poi ci si domanda: a che pro? I sindacalisti si dicono d'accordissimo sulle vaccinazioni, e si dichiarano disponibili a campagne di persuasione.  E allora perché tanta ostilità rispetto all’obbligo? Un raptus libertario? Non mi pare proprio nella tradizione culturale del sindacalismo italiano. Il riflesso pavloviano di “essere da una parte sola, quella dei lavoratori” (mi perdoni Brodolini), ossia di proteggere il lavoratore comunque e sempre? Un’ispirazione magari nobile, ma che in questo caso protegge non il lavoratore, ma il suo comodo, i suoi capricci, o se volete il suo diritto di scelta, opzione quest’ultima peraltro del tutto estranea alla tradizione sindacale quando si tratta di ottemperanza a disposizioni di legge da parte delle aziende ma anche dei lavoratori (vedi p.es. la L.626). L'impressione è che la scelta sia tutta di politique politicienne: dare l'immagine di un Sindacato che sempre e comunque difende la sua constituency, anche se questa è messa in (presunto) pericolo dalle riforme che è necessario fare. Il che del resto, è del tutto evidente nell’atteggiamento che CGIL CISL UIL hanno finora avuto nei confronti del Governo Draghi: richiesta di congelamento dei licenziamenti, proroga ad infinitum degli ammortizzatori sociali, rivendicazione di pensionamenti anticipati, stabilizzazione dei precari a prescindere. Anche il Sindacato si mette in concorrenza con i Partiti per il consenso facile mentre qualcun altro fa il lavoro sporco? In realtà è possibile un’altra versione del Sindacato: quella che fa gli accordi nelle imprese, che affronta le crisi con l’obiettivo di tutelare il lavoratore e non il “posto”, che accetta e contratta lo scambio tra misure che aumentano la produttività e aumento delle retribuzioni, che ha per obiettivo la crescita professionale dei dipendenti e la loro responsabilizzazione nelle scelte d’impresa, che non teme l’innovazione ma anzi la considera un’occasione di crescita, che cerca i risultati e non il consenso a suon di slogan. Questo sindacato esiste, è reale e opera concretamente. Sarebbe opportuno che fosse più visibile e valorizzato, nell’interesse stesso dell’affidabilità e della solidità del Movimento Sindacale Italiano.
Claudio Negro
Fondazione Anna Kuliscioff 

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