SONO GIÀ CENTOSETTANTA.

Centosettant’anni trascorsi da quei fatidici cinque giorni (18-22 marzo, 1848). Anni trascorsi in un istante e giorni ormai annebbiati, dimenticati e lontani. Talmente distanti da appartenere a un passato così remoto che forse non è mai stato. Un passato dove tutti insieme salimmo sulle barricate armati di bastoni, pietre e qualche moschetto antidiluviano razziato nei musei. Lo Stato Pontificio premeva; i piemontesi tentennavano; monarchici e repubblicani litigavano. E noi? Noi mettemmo da parte le divisioni, le opinioni personali e le differenze sociali. Noi eravamo milanesi uniti da un fine comune: diventare italiani. Tremano le dita sulla tastiera nel ripensare a quanti di noi rimasero esanimi sul selciato. Quante donne, con figli, marito e tutta una vita dinnanzi donarono se stesse per i figli e i mariti a venire. Quanti ragazzini, spesso orfani, dissero addio all’età adulta nelle nostre vie mentre facevano la staffetta tra una postazione e l’altra. Quanti uomini semplici conquistarono la grandezza eterna nell’anonimato senza nemmeno lasciarci un monumento da commemorare. Un nome da ricordare. La libertà. Quel bene ordinario giunto da lontano. Quella scontata condizione esistenziale che oggi crediamo dovuta per diritto di nascita. Quella parola spogliata d’ogni costrutto che riempie le bocche e impasta le pagine. Ridicolizzata e abusata dall’imperante individualismo che infine l’ha rimpiazzata con una brutta copia; la libertà di fregarsene: di tutto e di tutti. Una libertà egoista che marcia tronfia con un solo individuo alla volta mentre calpesta biecamente la candida sorella: colei che in un tempo affiancò e infuse coraggio a migliaia di milanesi. Almeno per un minuto, in uno qualsiasi di questi cinque giorni, indugiamo col pensiero a quei nostri concittadini che ci donarono un vivere sereno. Non ci vuole molto. L’indifferenza uccide di nuovo tutti loro. Dimenticare è pericoloso perché sottrae consapevolezza al presente e ci priva di senso critico, di empatia verso il prossimo. Non occorre alcuno sforzo per nutrire la libertà. È un bene che si alimenta da solo e che necessita di un’unica condizione. Ricordare sempre da dove è giunta e chi furono coloro che ce ne fecero dono.

Oggi come ieri; grazie, Milano.

Riccardo Rossetti

 


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