TRASFERTA AMERICANA 7

Quando già sentivo e prevedevo di venire ghermito dal sonno, il driver frenò e guardando attraverso il finestrino destro scoprii di trovarmi a fianco di un hotel né grande né piccolo, né alto né basso, né bello né brutto forse perché in una città come Los Angeles il concetto di bellezza è molto astratto. Un neon arancio faceva brillare l’insegna riportante il nome: Sunshine Hotel, e lo sfondo rappresentante un sole che sorge e due palme stilizzate. 

- Okay. There is - disse l'autista con voce profonda come proveniente dal profondo di una caverna. Scesi dal taxi, aspettai la restituzione del bagaglio, pagai la corsa condita da musica da sballo e lasciando anche: come di prammatica, una mancia più che decente. L'uomo biascicò un “thank-you” gutturale, risalì a bordo, eseguì una inversione di marcia ma non di mancia visto che dalle sue tasche la banconota non tornò nelle mie, e se ne tornò probabilmente all’aeroporto. Salii i tre gradini che innalzavano all'ingresso di un albergo non dissimile dai tanti presenti sulle nostre coste. All'interno vi era un atrio, di fronte all'ingresso un bancone di legno e dietro un individuo legnoso di circa settant’anni, quindi un legno stagionato. Gli occhi parevano scivolargli in giù, e se non fosse stato per gli occhiali che a loro volta gli scivolavano dal naso.

Dopo averlo salutato gli sottoposi il voucher, che prese ed esaminò mediante gli occhiali fatti risalire a livello degli occhi. Quindi si lasciò sfuggire un’approvazione di quattro lettere come “Okay” ma che invece era “Well”. Mi consegnò la chiave della camera prelevandola dalla rastrelliera alle sue spalle e informandomi a quale piano si trovava.

- Two Floor. Room twenty four.

Gli consegnai il passaporto e riafferrato il bagaglio imboccai la scala in finto marmo per approdare poi a un piano dal pavimento in vera formica. Quindi proseguii lungo la scala giungendo al capolinea. Nel corridoio che svoltava ad angolo sulla sinistra si affacciavano una decina di porte che dovevano immettere nelle relative stanze. Entrai nella mia.

La porta in legno era stata verniciata in verde mela, mentre la parete in color melanzana. Un tripudio di colori accesi che sembravano fare a pugni fra di loro. L'interno della camera era invece di colori più sobri: azzurro cielo d'estate alle pareti, zabaione sul pavimento, tipo vomito non più trattenuto. Due letti in legno stile Ikea erano separati da un corridoio sempre in legno, un cassettone dello stesso materiale e colore chiaro si trovava a sinistra dell'entrata, mentre la porta che immetteva nel bagno era a destra. Un televisore piatto come un vassoio vuoto giaceva su una mensola, sotto di essa una scrivania con sovrappoggiato un telecomando e una bibbia, complementari l’uno all'altra perché col primo era possibile vedere diversi programmi, con la seconda il programma era unico ma ben più grande, ben più assoluto.

Il bagno non era nulla di speciale, gli asciugamani erano ripiegati sulle loro rispettive bacchette come grossi tovaglioli sul braccio di compiti camerieri. Non vi era nessun cartello riportante l’avviso di utilizzarli più volte per risparmiare acqua, risorsa vitale dappertutto e in California specialmente. Ma si sa: l’America è sempre stata sprecona, perché ricca di risorse naturali e di insensibilità altrettanto naturale verso il pianeta che la e che ci ospita. 

Dopo avere effettuato qualche necessaria abluzione e sistemato il contenuto del bagaglio nel cassettone, decisi di uscire per fare due passi e quattro chiacchiere relative alla scomparsa del fratello del mio cliente, del quale recavo in tasca la fotografia. Da alcune stanze fuoriusciva l'audio dei televisori accesi, una mescolanza di musica e parole per me poco comprensibili, la musica forse più ancora delle parole. 

Scesi al piano terra, dove ritrovai quella sorta di burattino non completamente umanizzato. Evidentemente la trasformazione non era perfettamente riuscita. Mi avvicinai al banco, dove l'uomo aveva posato il mio documento di identità, che sospinse verso di me come la mano di un croupier un gettone. Io lo presi per poi a mia volta sospingere verso di lui la foto di Santini come fosse una fiche. L’uomo la fissò, e riconobbe il suo passato cliente.

- Sono qui per lui – spiegai. – Come già sa è scomparso senza lasciare traccia. Può dirmi qualcosa che lo

  riguarda? 

Mi restituì la foto.

- Ho già informato la polizia – spiegò a sua volta. – Quello che avevo da dire già l’ho detto.

- Lo dica anche a me – invitai. – Le ha fatto delle confidenze, le ha detto qualcosa su dove intendeva 

   recarsi nei giorni successivi al suo arrivo, su qualcuno che aveva incontrato o che doveva o voleva

   incontrare…

- So soltanto che voleva visitare Santa Monica e Palm Springs. E San Diego. Oltre a Hollywood e a una

  parte di Los Angeles.

- Ed è riuscito a vedere qualcuna di queste località?

- Era stato a Hollywood. Del resto, non so.

Annuii. - Non siete soliti organizzare o indicare compagnie di autobus che conducono in quei luoghi?

- No. Questo non è uno di quegli alberghi.

Lo disse come se avessi alluso al fatto che il suo era un albergo a ore.

- Me ne compiaccio - risposi. - Vado a fare due passi - e così dicendo girai sui tacchi e uscii.


Antonio Mecca

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