IL RISORGERE DEL MALE 14

L’agenzia nella quale operavo aveva sede sulla Quinta Strada, a Manhattan, all’ottavo di un edificio di ventidue piani color biscotto. Il biscotto in questione era stato un po’ troppo rosicchiato, e già da tempo l’intonaco si staccava a scaglie. Uscito dall’ascensore percorsi il corridoio sul quale si affacciavano le porte comunicanti con le cinque agenzie lì presenti: uno studio dentistico, uno legale, uno studio di consulenza fiscale, uno di pubblicità e il mio, di sicuro il meno remunerativo del gruppo. Con la posta infilatami sotto la porta me la sbrigai velocemente. 

Seduto dietro la scrivania socchiusi gli occhi affinché i miei pensieri potessero meglio manifestarsi. Sono timidi, i pensieri, e vanno aiutati come meglio si può. Il traffico sottostante, seppure attutito, era sempre incombente. Rappresentava il sottofondo costante delle mie giornate lavorative, un mormorio pressoché incessante che pareva come il formarsi di un mondo che dal sommerso salisse sempre più in superficie. Ripensai alla faccenda che mi vedeva coinvolto. La scomparsa e il ritrovamento del mio collega e amico Philip Raymond. La mia visita alla vedova dello scrittore Ed Lombain. L’incontro con il suo collega e amico Donald Sanderson, il quale mi aveva fornito una pista: quella relativa all’albergo dove aveva alloggiato il fratello della moglie di Lombain. Infine, il pedinamento di questa che mi aveva portato fino a un raduno di neonazisti in un luogo di campagna nello Stato confinante del Connecticut. Pensai a come proseguire e se proseguire. Avrei dovuto avvisare la polizia e magari l’FBI affinché giungessero sul posto e ne prendessero possesso. Avevo un amico poliziotto, un capitano della squadra investigativa che più di una volta era intervenuto per darmi una mano e togliermi dai guai. C’era però il fatto che il Connecticut non rientrava nella sua giurisdizione e, inoltre, non avevo per niente voglia di spifferargli tutta quanta la storia poiché avevo intenzione di proseguire per mio conto l’indagine fino a presentare il conto e a saldarlo. 

Ripensai al raduno che mi aveva visto partecipe. Gli incappucciati avevano un leader, un grassone con l’accento del Sud. Ma da quale Stato? E di chi si trattava? Pensai a come fare per poterlo rintracciare. Quel farabutto doveva essere arrivato nel Connecticut o più probabilmente a New York poco tempo prima del giorno del raduno, ed essersene quindi ripartito immediatamente dopo. Dall’aeroporto era probabile si fosse diretto in un albergo del centro cittadino e da lì poteva essere stato prelevato da un taxi o una macchina di un privato che lo aveva accompagnato al raduno. Dovevo condurre un’indagine personale riguardante i grandi alberghi del centro per individuare il personaggio in questione. 

Cominciai a fare il giro dei grandi e lussuosi alberghi. Quelli davvero “in” non erano molti. Con il primo che incrociai per strada l’approccio con gli addetti alla reception fu il seguente, che poi si ripeté anche con i successivi. Mostravo la mia licenza di investigatore privato, formulavo la mia richiesta: avevano avuto come cliente un uomo proveniente da uno Stato del Sud, di corporatura massiccia, altezza superiore alla media, il cui nome di battesimo era George? Doveva essere arrivato quattro-cinque giorni prima e, forse, già ripartito. Sempre che non si trovasse ancora lì. Alcuni impiegati mi conoscevano: personalmente o di fama. Qualcuno era probabile mi detestasse, ma per lo più provavano ammirazione per me, e in quei casi era semplice riuscire a ottenere qualcosa. Il settimo hotel in cui approdai era il 'Bristol': lì ottenni ciò che volevo. L’impiegato alla reception  era un mio vecchio conoscente, più di una volta ci avevo avuto a che fare e un paio di volte lo avevo incontrato in un bar non lontano da lì dove avevamo bevuto un bicchiere e scambiato quattro chiacchiere. 

- Mike! Come stai? - mi accolse con un sorriso di vera simpatia. 

- Diciamo bene - glissai. - E tu, Lew? 

- Diciamo che non posso lamentarmi. Tanto, a cosa servirebbe? 

- Forse a provare un po’ di sollievo. 

- Già. 

- Senti, Lew: sono alla ricerca di un vostro eventuale cliente. Si chiama George, il cognome non lo conosco, è un uomo alto e corpulento con accento del Sud degli Stati Uniti. Potrebbe essere approdato qui pochi giorni fa e, magari, ancora trovarsi registrato. Lew ci pensò su un attimo, dopodiché disse: 

- Credo di sapere di chi stai parlando, Mike. 

Consultò il computer facendo scorrere all’indietro con il cursore una sequela di nomi, e lesse ad alta voce: 

- George Walkermann, di Montgomery, Alabama. Professione imprenditore. È arrivato il quindici ed è ripartito stamattina. 

- Sai se si è incontrato qui con qualcuno? Telefonate fatte o ricevute, lettere o messaggi recapitati, taxi prenotati…? Lew controllò. 

- Per quanto riguarda lettere o telefonate, nulla. Per quanto riguarda i taxi… aspetta che mi informo. 

Telefonò a quello che si rivelò essere il portiere gallonato che stazionava lì fuori, un marcantonio alto due metri e largo uno che rivestiva un'uniforme e un berretto rosso. 

- Frank, sono Lew. Che tu ricordi, il cliente dell’Alabama che ha alloggiato da noi ieri e ieri l’altro, ha forse in questi due giorni prenotato un taxi o un’auto a noleggio? E stamattina, quando ha lasciato l’albergo, per dove era diretto? 

Aspettò una risposta, e io con lui. 

- Okay, grazie. 

Lew si rivolse nuovamente a me. 

- Frank dice di non avere chiamato per conto di Walkermann nessuna auto durante la sua permanenza qui, tranne il taxi che stamattina lo ha portato all’aeroporto Kennedy. 

Lo ringraziai. 

- Va bene, Lew. Ti ringrazio molto. 

- Sei a caccia, Mike? 

- Sì. Caccia grossa. 

Lui mi fissò con sguardo di rattristata compartecipazione. 

- Stai attento, Mike. Tu rischi troppo. 

- Talvolta non se ne può fare a meno, Lew. 

Così dicendo lo salutai e attraversata la vasta hall uscii dall’albergo.

Antonio Mecca