IL RISORGERE DEL MALE 16

Atterrai all’aeroporto di Montgomery a notte inoltrata. Il caldo avvolgeva la capitale come una coperta soffocante gravava sugli uomini e sulle cose, producendo un trattenuto nervosismo. Dal caldo passai al freddo dell’aeroporto, per quella dannata mania tutta americana di fare andare al massimo il condizionamento. 

Recuperato il bagaglio, tornai a immergermi nel caldo strisciante dell’esterno. Gli odori del Sud mi aggredirono le narici come la forza di un grosso pugno sferrato sul naso. Salii su un taxi. L’autista era un uomo bianco sulla cinquantina a cui chiesi di portarmi in un buon albergo. Lui non si prese neppure il disturbo di rispondere. Avviò la carretta e partimmo nella notte. La strada imboccata era scarsamente illuminata, il buio squarciato soltanto da pochi lampioni presenti e dai fari della macchina che si dirigeva in città. Gli odori della vegetazione presente, della terra circostante e del vento caldo proveniente da lontano penetravano nell’auto. Le luci che illuminavano le molte case della città cominciarono a intravedersi, per poi sempre più infittirsi. Il traffico scarso disturbava solo a tratti il silenzio della notte. Un’auto della polizia ferma a un angolo di strada sembrò osservarci con l’indifferenza di un calabrone addormentato. Il sonno del Sud avvolgeva anche le cose, oltre alle persone, ed era forse il sonno della ragione. 

L’hotel davanti al quale mi lasciò il taxista era un edificio in stile coloniale, alto cinque piani, rivestito di legno bianco. 

Il bianco, nel Sud degli Stati Uniti, cercava sempre di ricoprire il più possibile, come se bastasse a occultare il nero dell’anima. Pagai l’autista, gli lasciai una mancia adeguata, recuperai il bagaglio e feci il mio ingresso nella hall. Un portiere sonnecchiava davanti allo schermo di un televisore con il volume al minimo. Sollevò lo sguardo reso cisposo dal sonno fino al mio viso, dovette ritenere la cosa poco interessante per cui tornò a visionare lo schermo. Soltanto quando mi fui fermato di fronte a lui, con il ventre appoggiato al bancone, si degnò di tornare a guardarmi. 

- Avete una camera libera? - mi azzardai a chiedere. 

- See… - biascicò lui stancamente. 

- Con bagno e acqua inclusi, voglio sperare - aggiunsi, tanto per scuoterlo un po’. 

Non si prese il disturbo di replicare. Mi chiese invece un documento di identità, provvide a registrarmi, mi consegnò una chiave dalla quale pendeva il numero della camera: la 22, e mi augurò la buonanotte. 

Mi lasciai cadere sul letto a due piazze dalle fresche lenzuola ben stirate, piombando nel sonno di lì a poco.

Antonio Mecca