IL RISORGERE DEL MALE 17

A metà mattinata del giorno successivo mi diressi fino alla sede di un autonoleggio, dove affittai una Karmann Ghia color verde bottiglia. Lasciai il centro diretto nella zona residenziale della città. 

Il quartiere dove George Walkermann risiedeva era costituito da una mezza dozzina di belle case, circondate da vasti giardini e sorvegliate da due auto della security poste una a ogni estremità della strada. A bordo si trovavano due guardie, in contatto fra loro tramite l’autoradio. Mi videro passare lanciandomi uno sguardo acuto. 

Rallentavo appena costeggiavo una villa, ma non mi riuscì di scorgere il nome del proprietario. Lasciai la zona residenziale e tornai in città. Presso un negozio di elettrodomestici mi informai su dove si trovasse la Altemar e mi ci recai. Si situava a nord della capitale, a venti miglia circa di distanza. Era un grosso stabilimento che utilizzava, da come potei vedere con i miei occhi, una notevole manovalanza nera. Evidentemente per sfacchinare i neri andavano bene. In quel caso non ledevano l’immagine dei grandi uomini bianchi. Quando però si trattava di voler occupare un posto dignitoso nella Società, allora era un’altra cosa. Rimasi appostato nei pressi dell’ingresso per diverse ore, dopodiché me ne andai, tornai all’autonoleggio e cambiai auto. Questa volta scelsi una Chrysler blu notte, che avrei utilizzato per il resto della settimana.
Ripercorsi il tragitto che portava alla fabbrica di Walkermann e mi appostai nel grande parcheggio occupato da centinaia di auto. Il turno di giorno finiva alle ore diciotto, e allo scoccare di quell’ora una marea di operai e di impiegati si riversò nel parcheggio diretta alle rispettive auto. Poco a poco il parcheggio si svuotò per la gran parte: restarono soltanto una cinquantina di mezzi. Io continuai nell’attesa. Intorno alle ore venti, una grande auto azzurra varcò i cancelli, con al volante un uomo corpulento. Gli concessi alcuni secondi di vantaggio, dopodiché avviai il motore e partii a mia volta. Lo seguii da una certa distanza, attento a non farmi notare né, tanto meno, a farmi seminare. Lasciai che un paio di auto mi sorpassassero e si frapponessero fra la sua macchina, una Ford Imperial, e la mia. A un certo punto svoltò a destra. Feci lo stesso, sempre attento nel mantenere una adeguata distanza. 

Quando lo vidi fermare poco prima di un crocicchio, oltrepassai la sua auto per fermarmi un centinaio di metri dopo. Nello specchietto retrovisore potei vedere George Walkermann raggiungere un edificio a tre piani giallo vomito ed entrare. Dopo aver parcheggiato poco più in là, raggiunsi il palazzo e diedi un’occhiata ai nomi stampati sui campanelli. Erano venti, alcuni riportanti nomi, altri soltanto numeri. Fra i nomi riportati nessuno sembrò dirmi qualcosa. Il portone era di legno ed era chiuso. Anche se fosse stato aperto, non avrei saputo dove andare. Per cui tornai nei pressi dell’auto di Walkermann e vi diedi un’occhiata. Era un macchinone davvero imponente, che mi sembrava da folli lasciare incustodito. 

Con la tecnica acquisita in passato, aprii la serratura della portiera sperando non vi fosse innestato un allarme. Fortunatamente così non fu. Sedetti dietro il volante e aprii il cassetto del cruscotto. Dentro trovai carte relative 

all’automezzo, più una cartina geografica che osservai attentamente. 

Alcuni circoli tracciati a penna contornavano il nome di alcune località. L’occhio mi cadde su Hartford, nello stato del Connecticut, con riportato il numero sei. Dopo il sei c’era soltanto il numero sette, contornato da un circolo nei pressi della città di Birmingham, e gli altri numeri dal due al cinque erano piazzati in circoli presenti negli Stati di Virginia, Texas, Carolina, Georgia. Scattai alcune foto con il telefonino, ripiegai la cartina e la riposi nel cassetto. Piazzai una microspia che agganciai sotto il sedile del guidatore, uscii dall’abitacolo, richiusi la portiera facendo scattare la serratura di bloccaggio e tornai alla mia auto. Da qui mi allontanai solo per pochi minuti per poter andare a rifocillarmi in un bar vicino e per utilizzare il bagno. Dopodiché ritornai alla mia auto, sedetti dietro il volante e mi accinsi all’attesa. Dopo una mezz’ora, George tornò. Intravidi da una finestra del terzo piano una donna che da dietro la finestra chiusa lo salutava con il braccio destro sollevato. Accesi il motore, attivai il ricevitore del microfono e presi a seguirlo sperando utilizzasse il telefono per parlare con qualcuno. Cosa che avvenne di lì a poco.

- Jane, sono George. La riunione è finita e sto arrivando. 

Una voce in risposta che al mio orecchio era solo un ronzio confuso rispose qualcosa. 

- Queste riunioni sono stancanti ma necessarie, amore - riprese lui. 

- Non vedo l’ora di infilarmi a letto. A fra poco. 

E riattaccò. 

Il bastardo doveva essersi recato a trovare l’amante e inventato la scusa della riunione. Di lì a poco raggiunse il quartiere dove abitava e io deviai dal suo percorso per tornarmene in hotel.
Antonio Mecca