IL GIALLO DELLE 20:00

Capitolo otto

La sera stava calando, mentre il sole lentamente si immergeva nell’acqua dell’oceano come un grassone riluttante perché timoroso di affogare. Guidavo con il finestrino aperto, godendomi la leggera brezza che soffiava dal mare. In quei momenti mi sembrava di essere ancora un giovane fiducioso a disposizione una discreta scorta di anni verso il futuro, verso la società, verso le persone. Ora che di futuro ne avevo sempre meno, che sempre meno credevo nella Società e nelle persone, raramente mi sentivo leggiadro. Ma il passato che è sempre presente in noi ha talvolta il magico potere di farci tornare indietro nel tempo per qualche prezioso istante e piacevole ricordo.
Ora mi stavo limitando a tornare in una delle strade percorse alcune ore addietro, durante la prima mattinata. La casa della mia cliente era sempre là, ben stabile in attesa del prossimo terremoto che sembrava dovesse arrivare di lì a non molto, devastando la California quasi come una punizione divina indirizzata verso una moderna Sodoma e Gomorra. Attualmente la punizione era indirizzata verso una sola persona, e sarei stato io a somministrargliela seppure certo non mi considero - perché non lo sono - una entità divina.
Fermai l’auto e aprii il cassetto del cruscotto. Dentro si trovava una delle tre pistole che avevo in dotazione. Le altre due stavano in un cassetto dell’ufficio e in uno di casa. Questa era una 38 a canna corta, comoda da portare in tasca e magari per sparare attraverso la fodera. Controllai il caricatore: tutti e sei i cilindri del tamburo erano occupati. Forse era eccessiva una preoccupazione simile dovendo affrontare una donna; ma meglio non sottovalutare una sua eventuale reazione visto di che donna si trattava.
Quando suonai il campanello, passò un po’ di tempo prima che mi arrivasse una risposta. Poi una voce, la sua voce, disse:
- Chi è? - Il tono era cauto, sospettoso.
- Signora Anderson, sono Miller. Posso salire?
Anche qui ci fu una pausa. Dopodiché la voce riprese a parlare.
- Salga, signor Miller. L’aspetto.
Il contatto venne chiuso. Perplesso, mi accinsi a varcare il portone di ingresso nel frattempo aperto. Notai un’auto parcheggiata in prossimità della curva, con al volante un uomo. L’auto era una familiare a cinque posti, una grande Ford color marrone bruciato. L’uomo al volante fumava, e mi stava osservando. Entrato nell’ingresso presi a salire le scale, complimentandomi con me stesso per avere portato con me la pistola. Quando giunsi al secondo piano trovai Sylvia Anderson sulla soglia di casa, lo sguardo preoccupato che di certo il suo gelido sorriso non poteva riscaldare. Indietreggiò per consentirmi di avanzare all’interno, spostandosi di lato.
- Ha qualche novità, signor Miller? - chiese più con apprensione che non curiosità.
- Sì, signora Anderson. Per me lo sono state, per lei non credo proprio.
Perplessa, mi precedette nel soggiorno.
- Si sieda e mi racconti tutto.
Sedetti e cominciai a parlare.
- Credo che lei abbia ucciso suo marito e la sua amante, signora Anderson, facendone poi sparire i corpi. Credo che li abbia rinchiusi in due sacchi per l’immondizia, sistemati nel portabagagli dellanmsua auto e quindi trasportati e occultati in qualche luogo appartato. Credo poi che si sia diretta all’aeroporto e lasciato la Buick nel parcheggio per far credere alla polizia o ai complici di suo marito che Pete avesse preso un aereo diretto in qualche nazione estera. E per avvalorare questa tesi si è procurata di recente due depliant pubblicizzanti Messico e Francia mostrandomeli l’altro giorno. Ma  questi depliant sono stati distribuiti in agenzia quando già suo marito era sparito da casa, ma questo lei non poteva saperlo. Inoltre ho la testimonianza del carrozziere che ha riparato l’auto tre settimane fa, auto da lei danneggiata in un incidente avvenuto non lontano dal motel dove aveva seguito Pete e Lynn. In una delle occasioni - o forse anche l’unica - in cui lei li ha seguiti e ha avuto l’incidente stradale. A sua volta suo marito un incidente lo aveva subito qualche tempo prima della sua improvvisa scomparsa, scomparsa anomala perché ha evitato di estinguere il suo conto bancario nonché di portarsi dietro un bagaglio costoso riempiendolo di altrettanti costosi capi di vestiario. L’incidente in questione è stato la frattura di un braccio, braccio che ovviamente gli impediva di guidare seppure non di fare altre cose, per cui al motel si recava in taxi, come la titolare dell’albergo mi ha riferito. Quindi, cara signora, lei è nei guai, visto che ha commesso due omicidi. È stato solo per vendetta nei confronti di chi la tradiva che ha fatto tutto questo, o anche per qualche altro motivo?
- Anche per qualche altro motivo - rispose una voce maschile alle mie spalle.
Mi voltai. Un uomo alto di statura, più alto di me che sono sul metro e ottanta, stava in piedi con in pugno una automatica calibro 45. Quarantacinque era anche l’età che all’incirca doveva avere, avvalorata da una leggera spruzzata di grigio simbolo della età di mezzo, che all’inizio sembra quasi affascinante ma poi ben presto si rivela per quello che realmente è: un lento dissolversi nel decadimento più schifoso. E schifoso pareva anche essere il mio immediato avvenire, come il nero foro dell’arma mi stava a ricordare.
- Pete ci doveva qualcosa come centomila dollari, soldi che aveva ricavato dallo spaccio di eroina distribuita nel suo negozio di alcolici. Era solito versarcela alla fine del mese, ma a fine mese non ci è arrivato perché questa puttana lo ha fatto secco prima, facendone poi sparire il cadavere per avvalorare una sua presunta fuga e godersi i soldi che spettavano a noi.
- Spettavano a voi - replicai. – E in virtù di quale non virtù vi spetterebbero? Per il fatto di avere reso schiavi di quella merda in polvere centinaia di persone che ora trascinano la loro miserabile esistenza fino a crepare una volta ridotti a larve umane? E gente come voi ha il coraggio di definirsi uomini d’onore? - Lo fissai dritto negli occhi. - Un grande scrittore diceva: “Voi non fate che parlare dell’onore. L’onore può essere a volte il mantello dei ladri”. Cosa che io sottoscrivo pienamente.
Così concludendo mi scagliai contro di lui. La sua arma tuonò, e il colpo fuoriuscito mi raggiunse al fianco destro frenando il mio slancio e facendomi crollare a terra. Mentre il gangster puntava nuovamente la pistola contro di me, la donna fece apparire una pistola da sotto una manica del golfino e gliela puntò a sua volta contro. Pur essendo un’arma di piccolo calibro, una 22 o una .32, il risultato ottenuto fu più che buono verso quell’assassino.
Colpito alla schiena con due proiettili, l’arma gli cadde a terra e lui la seguì. Afferrai la .45 giusto in tempo. Sulla soglia del soggiorno era apparso un uomo, che mi parve essere lo stesso uomo intravisto dietro il volante della Ford marrone. Era armato, e con negli occhi una luce omicida. La donna, che si era voltata verso di lui, venne colpita con un preciso colpo sparatole da quella che pareva essere una .357 Magnum. Io sparai a mia volta prima che lui rivolgesse la sua attenzione verso di me. Fu sufficiente un solo colpo, ma per precauzione gliene inviai un altro.
Finì contro la parete, da dove fece cadere un quadro e finì a terra pure lui.
La stanza adesso era invasa dall’acre puzzo di cordite, acre come un incenso di messa nera che celebrasse il male. Mi alzai a fatica, avvicinandomi alla mia cliente. Era ancora viva, sebbene priva di conoscenza. Essendo già stata priva di coscienza, l’una cosa faceva il paio con l’altra.

Antonio Mecca

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