ASSASSINIO A BORDO 12

Ricevetti la telefonata intorno alle nove, poco dopo essere tornato nel modesto appartamento che occupo da circa sei anni, da quando avevo lasciato la polizia per insofferenza nei confronti della gerarchia interna. Mi ero appena messo comodo sul divano, intento ad ascoltare un canale radio che trasmetteva musica jazz, un bicchiere di scotch con ghiaccio in mano, la mente rivolta nel rievocare le mie azioni della giornata, quando il telefono squillò. Era sul tavolino accanto al bracciolo del divano dov’ero seduto. Abbassai il volume della radio e sollevai la cornetta.

- Signor Miller?

La voce era più che riconoscibile, per cui risposi: - Signora Barclay, piacere di risentirla.

- Ha scoperto qualcosa?

- Sì e no. Ho parlato con Lorella Pearson, con Thomas Gonuchi, con Charles Spencer, con l’impresario di pompe funebri Palermo e con la vedova Incerwood. Ho ricevuto picche da ciascuno di loro, e anche un

robusto pestaggio da parte di non so chi. Il messaggio era però chiaro: mollare, e subito, il caso.

- Ma lei non lo ha fatto, però.

La sua voce era dubbiosa, preoccupata in parte, come se la risposta che le avrei dato avesse potuto pregiudicare in qualche modo la sua vita.

- No, non l’ho fatto. Almeno per il momento. Ci tengo anch'io a scoprire cosa c’è sotto. Vorrei però sapere anche perché lei si sta interessando a questa vicenda.

Non rispose subito. Poi, quando lo fece, sembrò la sua voce quella di una cospiratrice che si confida a un altro adepto della massoneria.

- Ho ricevuto delle confidenze da qualcuno di cui per il momento non mi è possibile fare il nome.

Ma lei non si preoccupi, Mister Miller: sarà pagato puntualmente.

- Il fatto è che i pagamenti non avvengono soltanto tramite denaro sonante ma anche per mezzo di pagatori

che te le suonano con dovizia se intralci loro la strada. Quindi i soldi vanno anche bene, se non sono soldi

sporchi; ma tutto il resto invece no.

Anche questa volta la presunta Miss Barclay non rispose subito. Quando lo fece la sua era una voce dal tono

basso. 

- Penso che andrò a fare visita ad Hal Randolph - risposi a mia volta. - Perché è da lui che è partito tutto, e

Intendo con questo l'affitto del panfilo per organizzare la festa a bordo. Festa poi naufragata nel tragico.

- Va bene - approvò la misteriosa donna. - Ci sentiamo domani, più o meno a questa stessa ora.

- Okay. A domani.

Riabbassai la cornetta e risollevai il volume della radio. L’orchestra di Stan Kenton aveva sostituito quella di Glenn Miller, il mio omonimo musicista, senza far rimpiangere la prima, perché entrambe erano di ottima qualità. Ascoltai due canzoni, poi spensi la radio e mi diressi in camera da letto.

Come detto la sera prima alla mia misteriosa cliente, decisi di recarmi nel feudo dentro al quale imperava Hal Randolph. Si trovava, detto maniero, in una delle zone In di Los Angeles, nei pressi di Santa Barbara, bella cittadina tranquilla e piacevole da viverci. Non lontana dal centro abitato ma al tempo stesso appartata a sufficienza da non risultare coinvolta nel marasma del traffico quotidiano.

La casa di Randolph svettava sulla sommità di un colle verdeggiante, al pari di un frutto il cui colore giallo crema pareva quello di un grosso melone posato sopra un tappeto da biliardo. I tre piani che lo caratterizzavano caratterizzati a loro volta da alti e larghi finestroni, da balconi in marmo rosa, da un tetto di tegole color borgogna, donavano allo sguardo una visione di grandiosità e di bellezza, inducendo a pensare che anche chi ci abitava fosse altrettanto grande e bello. Perlomeno nella sua coscienza.

Quando vi giunsi erano circa le dieci.  La mattina era soleggiata e luminosa e il calore dei giorni precedenti si era un poco attenuato, tanto che restare all’aperto non era poi così tragico. Indossavo un completo azzurro polvere e una camicia bianco panna attraversata da una cravatta rosso scuro. Ci tenevo a fare bella figura, per cui avevo deciso di agghindarmi come un damerino di Vogue. Il campanello al quale suonai era provvisto di un altoparlante. La voce che mi rispose era quella di un uomo, una voce profonda da attore scespiriano che aspirando le parole mi chiese chi fossi e cosa volessi.

- Lew Miller - risposi. - Sono un detective privato che vorrebbe parlare con il signor Randolph.

- Il signor Randolph non è in casa - mi mise al corrente il maggiordomo. - Si trova al lavoro.

- Dove? - insistei.

- A Los Angeles: a Burbank, nella sede della sua casa editrice. 

- Va bene, grazie. 

Il contatto radio venne interrotto, e a me non restò altro da fare che risalire in auto. E, da lì, tornare in città. Raggiunsi Burbank in un’ora, vale a dire dopo le undici, occupai quindi un posto libero del parcheggio dove già si trovavano numerose auto di svariate marche, da quelle più lussuose a quelle più modeste, da quelle super cromate a quelle di stampo popolare. La mia si inseriva fra queste ultime, per cui parcheggiai al fianco di una Ford modello familiare, familiare ma pur sempre di marca Ford visto il suo lusso eccessivo, e a una Lincoln modello impiegatizio.

Mi diressi quindi all'ingresso del palazzo di dodici piani tutto rilucente nella sua plastica scura di recente costruzione. Il moderno svettava come un razzo proiettato nello spazio e quindi nel futuro dell'uomo - e della donna – una speranza questa che la guerra ormai pressoché finita rendeva più palpabile nonché papabile. La guerra era finita forse per esaurimento scorte di munizioni, e magari logoramento di armi troppo a lungo utilizzate, ma tempo pochi anni e sarebbe ricominciata, anche se magari su scala più ridotta.

Antonio Mecca

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