ASSASSINIO A BORDO 7

Nel mio mestiere si è soliti spesso procedere per istinto, che è poi l’anticamera dell’intuito. Era stato il mio istinto che mi aveva consigliato di contattare la giornalista Lorella Pearson prima, e la vedova di Thomas Incerwood poi. Non pensavo di raccogliere da loro la verità su quanto era successo, ma semplicemente di cercare di cogliere: in fallo, l’una o l’altra. Se si ha qualcosa da nascondere, spesso si reagisce con rabbia, e questo può comportare la caduta delle difese precostituite. Con le due sorelline ciò non era accaduto, o perlomeno non mi sembrava, per cui decisi ora di rivolgermi a un terzo elemento: quello del coroner che aveva firmato il certificato di morte di Incerwood. Chi lo sa se questi tre elementi avrebbero potuto comporre un mini termosifone atto a riscaldare l’ambiente e a permettere di sciogliere i nodi che quella vicenda comportava.

Avevo appreso che il medico legale si chiamava Gonuchi, Vincent Gonuchi, ed era un americano di origine giapponese che dall’Oriente era approdato in Occidente, “Go in the West, young man”, alla ricerca dell’Eldorado che già molto prima di lui gli spagnoli avevano scoperto. Risiedeva a Santa Monica, a cinquanta miglia da Los Angeles. La via era di recente costruzione, una via graziosa come tante altre presenti in città nonché nella megalopoli di Los Angeles, composta di una serie di villette a schiera di due piani stuccate di bianco, distanziate fra loro e immerse nel verde ben curato da sapienti giardinieri.

Quando giunsi al numero 48, dove il dottor Gonuchi risiedeva, erano ormai le sette e un quarto di sera, che se per alcuni non è di già ora di cena è perlomeno quella: a dire il vero presente lungo tutto l’arco della giornata, degli aperitivi. Sperando che il doc non avesse ecceduto con questi ultimi, suonai il campanello posto sotto la targhetta data dai nomi che riportava, precisamente: V. Gonuchi – L. Wilder. 

Dopodiché mi predisposi all’attesa. Che fu breve ma non meno intensa, perché occupato a far passare il tempo riflettendo su quanto già sapevo, vale a dire ben poco. Dall’interfono fuoriuscì una voce: femminile, giovane almeno in apparenza, gentile, educata.

- Sì. Chi è?

- Lew Miller – rivelai. – Sono un detective privato che vorrebbe parlare con il dottor Gonuchi.

La donna non disse nulla per un po’. Quindi la sua voce venne sostituita da una voce maschile, il cui inglese sembrava ricavato dai manuali scolastici. Mi ricordava quello della presunta Diana Barclay.

- Sono Gonuchi – disse. – Lei chi ha detto di essere?

- Lew Miller – ripetei. – Lew and Order, è il mio soprannome.

- E quale è il motivo che l’ha spinta fin qui?

- Il motivo che mi ha spinto fin qui è come un pilota di bob che viene spinto sulla pista in discesa finendo 

  per acquistare sempre più velocità mano a mano che il tratto di pista viene percorso.

- Non riesco a capirla – sentenziò.

- Non è il solo – assicurai. – Ho bisogno della sua consulenza, dottore, riguardo un caso di morte.

- È tardi – sbottò lui. 
- Forse non ancora per far luce sulla verità – dissi. – Non le farò perdere molto tempo. Inoltre posso pagare per la sua consulenza. – Sperando che non me l’avrebbe fatta pagare lui.
Ci fu una pausa da parte sua.
Venne poi interrotta quando disse: - E va bene. Salga pure: scala A, terzo piano.

Il cancello venne aperto con un ronzio ed io potei così percorrere il sentiero lastricato con pietre rosa come un rosso pompeiano messo a mollo in una soluzione acida. Giunsi poi a un ingresso con sopra riportata la lettera A. La doppia porta a vetri era socchiusa, e il mini ingresso rosa confetto era provvisto di una scalinata di medie dimensioni, e di un ascensore di lucente metallo grigio che pareva il rivestimento di acciaio che ricopre i treni ad alta velocità. Salii nella cabina e mi feci portare fino al terzo piano. Quando vi giunsi vidi che una porta era aperta e, di lì a poco, ecco stagliarsi sulla soglia una sorta di samurai in borghese, di media statura, vestito con camicia bianca e pantaloni scuri. Scura era anche l’espressione sul volto bianco da pierrot, i cui caratteristici lineamenti orientali lo gravavano di una serietà che sapeva di funereo. Non per nulla praticava quella professione. Aspettò che lo raggiungessi, dopodiché rispose al mio saluto con tono grave da tragedia giapponese.

- Entri – invitò.

Entrai in un soggiorno arredato alla maniera orientale, con sovrabbondanza di tappeti, alcuni lunghi e larghi come zattere, altri più piccoli simili a ninfee tolte dall’acqua. Le tende di velluto dai colori chiari erano infarcite di scene agresti, di squisito sapore giapponese, che per chi come me del Giappone non ama – fra le altre cose – di certo il cibo, erano dello stesso sapore insapore. C’erano laghetti minuscoli come occhi ricolmi di lacrime, occhi piangenti per la nostalgia a stento trattenuta. Il padrone di casa mi seguì dopo avere richiuso la porta, ed ecco apparire anche la padrona, una donna bianca sulla quarantina, di dieci anni di meno rispetto al marito, vestita con gonna nera e camicia rosa confetto, quasi un confetto arrossato dal sangue che un ascesso procura mentre lo si sta succhiando. Mi sorrise con grazia, al che risposi alla stessa maniera ma anche con l’aggiunta di un cenno del capo.

 Antonio Mecca

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