CODICE ROSSO di Antonio Mecca Cap. 5

Lo fissai con attenzione, mi sembrava un individuo non certo per bene. Quindi le restituii il telefono.

- Okay. L’ho memorizzato, Allora dovrei trovarmi lì domani prima delle cinque e aspettare il vostro arrivo.

- Sì. Io sarò lì per le cinque, e poi sarà quel che sarà.

- Già.

- Quanto le devo dare? – si informò.

- La mia tariffa è di trecento euro al giorno, escluse le spese – la informai a mia volta.

Lei cavò dalla borsetta un grazioso portafoglio e da questo sei ancor più graziose banconote da cinquanta. Quindi me le porse. Le presi con delicatezza, posandole sul ripiano della scrivania.

- Mi farà sapere poi le spese che avrà avuto.

- D’accordo. Sarò lì da prima delle cinque seduto su una delle panchine nei pressi della fontana.

Ci trovammo in un minuscolo atrio piastrellato con mattonelle rosso vino ancora lucide di cera sebbene non più profumate, perché il detergente doveva essere stato passato ormai da vari giorni. Da lì si arrivava in un soggiorno grande il triplo attraverso un’apertura ad arco; un arco la cui freccia era stata scagliata in alto, per poi ricadere con la punta sul pavimento e tracciare forse i ghirigori che si vedevano sulle piastrelle. Sempre procedendo in avanti, ecco la camera da letto con un giaciglio a due piazze ricoperto da un copriletto di stoffa azzurra. Di fronte un grande armadio, di fianco un cassettone dello stesso legno: abete, e colore: marrone scuro. A sinistra una scrivania con una minuscola libreria. 

- Okay. Cominciamo.

La donna rimase a guardare mentre io aprivo le ante degli armadi e i cassetti dei mobili, spostando abiti, biancheria intima, oggetti vari. Non agivo con furore, ma con meticolosa attenzione.

Da lì tornammo nel soggiorno, e anche qui l’operazione fu condotta con lo stesso metodo.

Ci impiegai una mezz’ora, dopodiché decisi di finirla lì.

- Possiamo tornare giù. La ringrazio per il tempo concessomi.

Lei sospirò, e richiuse la porta. Quindi rientrammo nella cabina dell’ascensore dopo averla richiamata dal sesto piano dove si trovava e scendemmo al pianoterra.

- Arrivederci – salutai la donna.

- Arrivederci – rispose lei laconica.

L’abitazione dove Anna aveva abitato con i suoi genitori era situata nei pressi di piazzale Loreto, là dove Mussolini e alcuni suoi gerarchi nonché l’amante Claretta erano stati appesi: già morti, a testa in giù.

Triste fine per colui che aveva coltivato il fine di guidare l’Italia fino alla fine. Invece appeso con la nuda capoccia a pochi centimetri dal suolo patrio pareva essere una testa di martello pronta a infiggere sul selciato grossi chiodi come quelli sulla croce di Cristo, il figlio di Dio fatto Uomo. Qui invece si trattava del figlio del fabbro scivolato fuori dall’incudine e dalla testa del martello, purtroppo.

La casa dove la famiglia Salviti viveva si trovava in una traversa vicinissima a piazza Argentina, nei pressi della stazione della metropolitana. Si trattava di un palazzo di sei piani risalente agli anni Cinquanta, decennio susseguente al decennio più terribile del Novecento e precedente quello del boom economico.

I genitori di Anna risiedevano al quarto piano, e fu lì che mi diressi dopo che mi ero annunciato al citofono. L’ascensore mi depositò al piano selezionato. Trovai una delle tre porte presenti sul pianerottolo semiaperta, dalla quale una figura fece capolino. Si trattava di una donna non più giovane intorno alla settantina. 

I grigi capelli erano ancora folti e lisci; gli occhi poco lucenti e semiaperti; la figura magra e leggermente ricadente in avanti, come ad abbozzare un inchino che per pudore non le riusciva di effettuare per intero.

- Signora Salviti? – le chiesi pur conoscendo già la risposta.

- Sì. Lei è il signor Solmi?

- Infatti. Posso entrare? Vorrei parlare con lei di sua figlia Anna.

Un velo di tristezza calò sul suo sguardo rendendolo più opaco, quasi una saracinesca che celasse ciò che il suo cuore mostrava.

- Sì, certo. Si accomodi pure.

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