È ORA, FRATELLO 1 - di Yari Lepre Marrani

Non sapevo dove mi trovavo ma di sicuro ero in un luogo molto infelice. L’esilissima luce che filtrava dalla piccola grata inferriata posta alla sommità di quel luogo scuro illuminava a stento un angusto spazio del pavimento. Ma l’esile luce non era necessaria per capire dove fosse il mio corpo: ero sdraiato in decubito laterale su un materasso di un’infernale durezza, assai scomodo, il braccio destro, che muovevo a fatica a causa dei dolori lancinanti che lo attraversavano, pendeva fuori dal letto con il palmo aperto mentre il braccio sinistro penzolava fuori dal letto ma sotto la mia pancia. Sentivo pulsare tutto il mio corpo, dal cranio in poi, come fosse tutto tumefatto; mi esplodevano, dal collo alle caviglie, sensazioni di dolore che andavano e venivano come se il mio corpo fosse preda di una strana, dolorosa malaria. I miei occhi ancora umidi erano appannati come se mi fossi appena svegliato da un sonno durato secoli, un risveglio dopo un’infinita ibernazione. Solo con una certa fatica riuscii a spostarmi su quel dannato pagliericcio mentre con la mano destra mi sfregai gli occhi per renderli più lucidi e attivi. Fu  quando cercai di spostarmi a pancia in su, tra quei dolori strani e ripetuti che  apparivano e sparivano, che sentii un cigolio di ferro sotto di me, uno sferragliare che compresi non appena cercai, a pancia in su, di portarmi entrambe le mani al volto, per strofinarmi bene la vista debole: ero incatenato a quel letto da delle  spesse catene di ferro che terminavano con catene bracciali sempre in ferro che chiudevano i miei due polsi. Rimasi scioccato. Perché ero imprigionato? Il luogo dove mi trovavo, quindi, doveva essere una cella oscura e sotterranea considerata l’altezza del soffitto che incombeva su di me con quella minuta grata posta circa un metro sotto ma molto alta rispetto a dov’ero io, dalla quale filtrava un piccolo guizzo di luce. Nonostante le mie braccia fossero imprigionate – le catene che mi legavano a quel letto erano solo per le braccia perché le gambe e i piedi erano liberi, potevo muoverli liberamente, pur con difficoltà – riuscì a sedermi appoggiando la mano destra su una parte del materasso mentre l’altra mano, dopo avermi più efficacemente pulito gli occhi lacrimosi, mi permetteva di capire dov’ero. Adesso vedevo meglio, vidi a circa 4 metri dalla fine del mio letto delle spesse sbarre d’acciaio che partivano dal pavimento in pietra e s’innalzavano, spesse, sino ad almeno 3 metri di altezza, incastrandosi nel muro che le sovrastava. Erano tante sbarre, almeno 20, dietro un lungo corridoio ampio e scuro, sempre in pietra, in fondo al quale partiva una scalinata di cui vedevo chiaramente l’ampio, imponente terrapieno che la reggeva. Era una scalinata altissima con così tanti scalini grigi che non avrei saputo contare e che portava sopra; a destra in alto, un’altra grata ferrata molto più ampia di quella dov’ero imprigionato, faceva entrare un po’ di luce solare che andava a irradiare il sotterraneo. Avevo già capito che ero imprigionato in una buia cella sotterranea, serrato con quelle catene a un letto, forse in una prigione, questo non lo riuscivo a capire… certamente ero imprigionato in quella cella come un derelitto. Una volta compreso il mio stato, mi accorsi che ero coperto dal collo ai piedi da un lungo saio bianco. Ancora non capivo perché io fossi in quel luogo da alto medioevo, in quella strana geenna sotterranea; la consapevolezza che le mie braccia erano incatenate, che ero imprigionato, mi empiva di una viva sofferenza interiore e di angoscia e quelle catene erano il veicolo che le faceva irraggiare in tutta la mia persona. Ed ero al buio, con rari punti della cella che riuscivo a vedere. Il mio turbamento divenne più profondo quando sentii degli squillanti squittii diffusi per tutto quell’infelice luogo.
Riuscii a spostarmi seduto sul duro materasso e misi i piedi a terra quando vidi diversi sorci neri che formicolavano per quella terra fredda e pietrosa. Messi i piedi scalzi giù, alcuni si stavano raggruppando attorno ad essi con le loro piccole ma logoranti zanne con l’intenzione di azzannarli. Erano neri come il peccato e voluminosi come talpe, sentii infelicemente la morbidezza dei loro corpi strusciarsi su piedi e caviglie. Dopo averli cacciati a pedate dal pavimento del mio letto cercai di guardarli avvicinando la mia faccia alla terra: rimasi impressionato dai loro occhi neri come la pece, vivaci e guizzanti, dovevano essercene qualche decina. Il suono del loro squittire mi confermò che quella cella era molto sporca, laida oltreché fosca e tenebrosa ma non sapevo cosa fare. Il mio saio aveva 2 tasche profonde. Inserì la mano nella tasca destra e vi trovai, misteriosamente, alcuni fiammiferi che mi sarebbero stati utili per illuminare, una volta accesi, quell’antro sotterraneo dove ero rinchiuso. E fu in quel momento, poiché i dolori alla schiena e alle gambe si facevano più sopportabili o li sentivo gradualmente diminuire, che decisi di alzarmi da quel letto se le catene che serravano duramente le mie braccia me l’avessero concesso. 

continua domani alle 24

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