È ORA, FRATELLO 7 - di Yari Lepre Marrani

Mi girai verso la grata in alto, verso quella gracile luce, ero sudato ed il mio saio bianco tutto inzuppato del frutto della mia fatica, angoscia e disperazione. Fui colto dal concreto pensiero della mia morte e gridai, urlai a quelle mura. Mi trovavo ancora in piedi sul materasso e muovendomi incautamente con i piedi, nell’oscurità che mi circondava, ne appoggiai uno sospeso nel vuoto e caddi come un sacco inanimato a terra, tra i sorci, cadendo sul mio fianco sinistro con un colpo alla spalla che mi raggelò l’intero corpo dall’improvviso, lancinante dolore. Ero disteso a terra come un poveraccio, lamentando la mia tragica sorte, attaccato a quel pavimento freddo e sporco con le braccia che sentivo sempre più stanche e indolenzite quando avvertii, piegato sulla sinistra, qualcosa che toccava il mio fianco penetrandone la pelle, come se fossi appoggiato ad un oggetto piccolo e duro che lievemente s’imprimeva nella carne. Ormai non avevo più speranza ma la cosa m’incuriosì, mi spostai dal punto in cui ero caduto e tastai il terreno: non c’era nulla. Però quel rilievo all’altezza del fianco l’avevo sentito, all’altezza della tasca sinistra del mio saio bianco e sozzo. Ci misi subito la mano dentro, sino in fondo alla profonda tasca e, per Iddio dei cieli, trovai la chiave ferrata che stavo cercando!! Che tremendo incubo, che malvagio supplizio! Avevo cercato sino allo sfinimento e alla disperazione, sino a perdere la ragione dal terrore e…la chiave era in fondo alla mia tasca sinistra! Così semplice o diabolico che non ci avevo nemmeno pensato quando mi ero gettato a insudiciarmi tutto, alla ricerca di quell’oggetto di salvezza! Che scherzo bastardo mi avevano fatto e tutto quello che cercavo era nella mia tasca! Ero salvo! Presi quella maledetta chiave tremando convulsamente e la portai alle mie catene bracciali. La chiave entrò subito nelle loro serrature, si aprirono e sentii finalmente i polsi freschi e liberi; diedi un calcio furente a quelle catene lanciando un grido liberatorio. Non sapevo che ore erano ma dovevo avercela fatta, ora dovevo solo aprire la cella con quella chiave e scappare il più lontano possibile da quell’inferno. Camminai tra i ratti, i teschi e feci per raggiungere le sbarre della mia cella per aprirla ma quando fui a due passi dalla sua serratura, con la chiave in mano e l’ansia del disperato alla fine salvato dalla sorte, due energumeni alti almeno 2,40 metri, incappucciati da boia entrambi di nero, con le braccia grosse come colonne, due bestioni vestiti di scuro dal cappuccio ai piedi si palesarono ai miei occhi spostandosi verso il centro delle sbarre, uno da destra l’altro da sinistra, sbucando fuori dai due muri laterali ad esse che prima me li avevano nascosti. Entrambi, muti come la morte, avevano ciascuno, tra le mani, un'accetta dalla lama ferrata assai lucente che tenevano, tutti e due, vicino al petto. Un coltello da macellaio era infilato in una delle loro fondine. Inorridii terrorizzato capendo subito che se avessi cercato di uscire quei due alti mostri incappucciati mi avrebbero tagliato immediatamente ed ebbi il più atroce dei sospetti: accesi l’ultimo fiammifero che mi era rimasto sfregandolo per terra con la mano madida e tremolante e portai la sua capocchia verso l’orologio in alto alla mia destra: erano le 10.01! 

continua

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