IL GIALLO DELLE 20:00

Capitolo sei

A questo punto, perplesso e un po’ confuso, decisi di recarmi all’aeroporto. Varcai la soglia del parcheggio, posteggiai l’auto e mi misi alla ricerca di una Buick del ’67 color verde scuro che doveva trovarsi lì già da qualche giorno. Il parcheggio era molto vasto, e le auto presenti numerose. Ma io avevo tempo, e pazienza. Dopo tre quarti d’ora la trovai. Non conoscevo il numero di targa perché la mia cliente non me lo aveva fornito né io glielo avevo chiesto, ma la descrizione del veicolo corrispondeva. Si trattava di una macchina “vissuta”, o sopravvissuta, ad anni di usura continua. Pur essendo stata immatricolata solo otto anni prima, pareva infatti piuttosto logorata dall’uso. Provai ad aprire lo sportello ma era chiuso. Presi dalla tasca della giacca il piccolo coltello a serramanico, ne feci uscire la lama, sottile e appuntita, infilandone la punta nella serratura. Non mi ci volle molto perché avessi ragione della serratura, che mi permise di aprire la portiera e di sedermi dietro al volante. Quello che mi interessava erano eventuali carte rivelatrici di qualche indizio, od oggetti che portassero al medesimo risultato. Aprii il cassetto del cruscotto. Dentro si trovava una carta topografica della California, un piccolo paio di forbici, una confezione di fazzoletti di carta, una di cerotti e una bottiglietta di plastica contenente alcool denaturato. Nelle tasche laterali delle portiere alcune musicassette di cantanti e musicisti americani e inglesi: Neil Young, Santana, Paul Mc Cartney, Frank Sinatra. Dietro l’aletta parasole sopra il posto di guida c’erano i documenti di immatricolazione dell’auto - che apparteneva effettivamente ad Anderson - e fatture varie relative al pagamento del bollo di circolazione e per riparazioni effettuate presso officine varie. Notai, fra queste ultime, ricevute di pagamento fornite tutte dalla stessa officina: quella di Jeff Allison, situata sulla strada per Santa Monica. Invece un’altra era relativa a una carrozzeria ubicata nella direzione per Venice. La data del rilascio era quella del sette di marzo, vale a dire tre settimane prima. Era stato sostituito il parafango anteriore destro e la lampada soprastante, sistemando anche una parte della portiera sullo stesso lato. Il costo si era aggirato sui centocinquanta dollari. Tolsi quest’ultima ricevuta dalle altre e me la infilai in tasca. Dopodiché riposi le altre nel porta documenti di pelle che infilai nuovamente all’interno dell’aletta parasole. Dietro l’altra aletta parasole non c’era niente. Quindi cercai la leva che permette lo sblocco del portabagagli e la feci scattare. Richiusi la portiera e feci il giro dell’auto. Sollevai il portello del portabagagli. Vi trovai dentro i soliti attrezzi necessari per il cambio dei pneumatici, più alcune vecchie riviste e una serie di grandi sacchi per  l’immondizia di plastica rosa. Uno di questi, il primo della mezza dozzina lì presente, riportava per tutta la sua superficie degli avvallamenti, come se fosse stato schiacciato da un peso che ne aveva occupato tutta la lunghezza. Sfiorai la superficie di plastica del sacco, che mi parve al tatto riportare qualcosa di appiccicoso. Decisi di prelevarlo e di portarlo alla mia auto. Richiusi il portellone e raggiunsi la mia Ford, piazzando il sacco sul sedile posteriore. Dopodiché uscii immettendomi sulla strada per Venice costeggiante l’Oceano da una parte e le colline dall’altra. Ogni tanto incrociavo qualche spiazzo occupato da villette -generalmente sopra un’altura- stazioni di servizio, o motel. Dopo il secondo motel, a circa venti miglia da lì, trovai l’indicazione della carrozzeria in questione. Svoltai sulla destra ed entrai nello spiazzo che occupava l’officina. Alcune auto provenienti da varie epoche stazionavano davanti al capannone, e un paio di uomini in tuta blu sporca di grasso si aggiravano fra le auto. Fermai l’auto vicino all’entrata, dalla quale provenivano i tipici rumori che un posto del genere produce: colpi di martello, motori su di giri, spruzzatori di vernice in azione. E gli odori acuti che tutto questo comporta. Tenendo in mano la ricevuta, mi avvicinai a quello dei due che pareva essere superiore in grado, forse perché più anziano dell’altro o semplicemente perché con l’espressione più decisa.
- Buongiorno - salutai - sono un detective privato e vorrei che desse un’occhiata a questa ricevuta.
Mostrai il foglio all’uomo, che lo prese, inforcò un paio di occhiali e lo lesse. Poi me lo restituì.
- Ebbene? - chiese togliendosi gli occhiali.
- Si ricorda chi le ha portato l’auto, e all’incirca verso che ora?
Si grattò il capo, aggiungendo lo sporco della mano a quello della testa.
- Mi pare sia stato verso l’orario di chiusura. Si trattava di una donna.
- Non di un uomo? Magari quest’uomo? - e così dicendo sfilai dalla tasca la foto di Anderson seduto al tavolino del bar, con davanti a sé la sua birra chiara, quasi che chiara potesse diventare così anche la faccenda.
Lui evitò di rimettersi gli occhiali.
- Gliel’ho detto: era una donna.
- Bianca oppure orientale?
- Bianca come lei e me, ma a differenza di lei e me giovane, carina, gentile.
- Una bionda suoi quarant’anni? - insistei.
- Una bionda sui quarant’anni - confermò.
- Quando è venuta a restituire l’auto ha pagato in contanti, con un assegno, o con la carta di credito?
- In contanti. Il costo era di centocinquanta dollari, come ha già visto riportato sulla ricevuta.
Annuii. Dopodiché non avendo altro da chiedere mi accomiatai.

Antonio Mecca

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