Il Giallo Delle Ore 8

INDAGINE IN BIANCO E NERO
Capitolo due

Era una di quelle rare giornate in cui anche nella California meridionale piove. Aveva cominciato da poco, con tutta l’apparente intenzione di non smettere prima dell’indomani. Il cielo era coperto, e una luce scura spioveva insieme all’acqua chiara. La donna mi diede un’occhiata, rivolta al mio viso dove risaltavano gli occhiali da sole non necessari in quella situazione atmosferica. Probabilmente doveva pensare che il mio fosse un vezzo, mentre invece era una necessità. Alla luce esterna del giorno i miei occhi soffrivano più che al chiuso o di notte; per cui dovevo necessariamente proteggerli dalla luce con opportune lenti scure. L’auto di Johanna era una Ford Mustang di dimensioni umane a quattro posti, di colore scuro che avrebbe potuto essere blu, verde o rosso. L’interno era color crema, quasi la schiuma di un cappuccino. La donna sedette dietro il volante, accese il motore e si avviò con una partenza a scatto.
La strada non era trafficata a quell’ora della giornata, le quattro del pomeriggio. Il boom di auto circolanti si sarebbe avuto solo di lì a due ore. Stavamo percorrendo, una strada affiancata da case basse, quasi quelle di un film western girato nelle vicine Case di produzione cinematografiche che avevano conosciuto l’apice fino agli anni ‘60 del secolo scorso, imperversando al cinema e in televisione. Ci impiegammo circa mezz’ora, tempo necessario per percorrere trenta miglia, prima di giungere in Hill Street, la via dove sorgeva la villetta che aveva ospitato il nido d’amore dei due piccioncini, al numero civico 28.
Si trattava di una costruzione a due piani risalente a prima vista a una trentina di anni addietro, dipinta in quello che forse doveva essere giallo senape, e quasi di sicuro con tegole rosse a comporre una tettoia in stile messicano, quasi che la testa dei californiani fosse da sempre rivolta al Paese di provenienza: il Messico, il quale nei tempi antichi era composto anche dal Texas, dall’Arizona, dal New Mexico e dalla California, appunto. La madre lingua spagnola del resto si mescolava e amalgamava con la matrigna lingua inglese, e i chicanos abbondavano e proliferavano alla faccia dei loro oppositori politici.
Johanna fermò l’auto parcheggiandola accanto a un dannato Suv scuro. Scendemmo. Qualcuno transitava a piedi e ci rivolse non più di una occhiata distratta. Miss Barnes tolse dalla borsetta di lucida vernice una chiave piatta che poi infilò nella serratura della porta di ingresso, sulla quale una targhetta ovale in ottone riportava il nome: J. Bellamy. Aprì, ed entrati, approdammo in un soggiorno arredato con gusto tipicamente maschile, razionale. Tolsi gli occhiali per vedere meglio e anche perché in quella situazione potevo permettermelo.
Notai alcune foto incorniciate, e fra queste due che ritraevano lo stesso giovanotto di bell’aspetto. In una era solo, in costume da bagno, alle spalle l’oceano e sotto i piedi la spiaggia. Nell’altra invece si trovava in compagnia, vestito da cow-boy con tanto di Stetson scuro sulla testa. Era insieme a due amici, giovani anch’essi. Dimostrava: sia nell’una sia nell’altra foto, una trentina d’anni. Era bello di viso, di corpo e provvisto di un sorriso a trentadue denti.
- È lui? - chiesi alla donna.
- Sì - confermò con tristezza e rimpianto, ma non con pietà. Mi guidò poi oltre il soggiorno, dove da un ingresso ad arco si passava in una cucina di medie dimensioni. Da lì, ecco una porta socchiusa che Johanna sospinse con precauzione. Premette poi il tasto dell’interruttore posto a lato della porta la cui luce proveniente da un lampadario centrale illuminò con i suoi caldi colori la stanza. Il corpo nudo di un uomo giovane giaceva a faccia in giù al centro del letto matrimoniale, con il corpo dal quale una chiazza scura di sangue si era andata allargando sul lenzuolo. Lo voltai con cautela, delicatamente. Gli occhi erano spalancati sul nulla, e nulla era anche la loro espressione. Dalla bocca semiaperta colava ancora, quasi al rallentatore, una scura bava di sicuro rossastra, unico segno di vita ormai finita. La donna al mio fianco distolse lo sguardo e sembrò trattenere un grido. Io mi avvicinai al cadavere per esaminarlo. L’unico segno di violenza subita era quello che la sua testa mostrava: una larga ecchimosi rosso scuro (ero ragionevolmente sicuro che si trattasse di sangue, e di sangue proletario, per cui rosso) che gli faceva una aureola sul capo. Gli scostai i capelli per cercare, al tatto delle dita, di rilevare una qualche presenza proveniente dall’arma adoperata per ucciderlo con bestiale ferocia. E qualcosa trovai: minuscoli granelli di lucido acciaio grigio, che ebbi cura di avvolgere in un fazzoletto pulito. L’assassino doveva avere usaato probabilmente il calcio di una pesante pistola, forse una automatica, probabilmente una 45, o una 357 Magnum.
Mi voltai verso quella che oramai avevo deciso di accettare come mia nuova cliente.
- Andiamo - le dissi. - Inutile trattenersi ancora.
- E… la collana?
- È altamente improbabile che si trovi ancora qui. Chi ha ucciso il suo amico se ne è di sicuro appropriato.
Ripulii le maniglie delle varie stanze con un secondo fazzoletto, quindi i diversi oggetti che la donna ricordava di avere toccato. Poi uscimmo, rimisi gli occhiali da sole e la seguii alla sua auto.

Antonio Mecca

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