IL GIOCOLIERE DELLA LETTERATURA 29

La porta si aprì e un uomo comparve sulla soglia prima che Georgel avesse premuto il campanello. Cotillard, se di lui si trattava, era alto e ben piantato al pari di un albero dalle radici profonde. Un paio di baffi fuori moda che strabordavano da sopra il labbro superiore campeggiando sotto un naso a peperone rosso per via della circolazione affannosa che gli causava il consumo di una probabile elevata quantità di alcool. Lo sguardo era lucido. La testa, lucida anch’essa, soltanto perché priva di capelli.

- Buongiorno, monsieur Cotillard. Commissario Georgel, polizia criminale.

- Cosa è successo?

- A lei nulla di cui preoccuparsi - lo rassicurò il poliziotto.

L'uomo sembrò riflettere sulla risposta come uno specchio sporco che vede sporco tutto il mondo.

- Be’… entri pure.

Così dicendo si fece da parte permettendo a Georgel di varcare la soglia della casa che immetteva direttamente nel minuscolo soggiorno, dove un grosso televisore costituiva il mobile di più alto valore della casa.

- Sieda pure, signor commissario. Questi si accomodò su una poltrona che aveva visto giorni migliori in anni addietro prima della seconda guerra mondiale.

- Mi dica, commissario – invitò il capotreno sedendo a sua volta all'estremità di un divano della stessa tipologia delle poltrone di stoffa verde bottiglia con i braccioli in legno massiccio.

- L'altro ieri sera, lei viaggiava sul treno diretto a Bruxelles?

- Sì, è così.

- A quanti minuti dalla partenza ha iniziato il suo giro per richiedere i biglietti?

- Forse un dieci minuti dopo? - disse come a voler chiedere a lui la conferma.

- Inizia di solito dal vagone di testa o da quello di coda?

- Da quello di coda, perché resto sulla banchina in attesa di eventuali passeggeri ritardatari.

- Le è capitato di notare due passeggeri giovani, un ragazzo e una ragazza, arrivare all'ultimo momento?

 Oppure, sempre loro, seduti in uno scompartimento o anche, separati l'uno dall'altra in altri? A quell'ora, di solito, c’è molta gente a bordo?

- Dipende dal giorno. Ma mi ci faccia pensare… una ragazza e un ragazzo, ha detto?

- Sì. Entrambi di bell’aspetto.

L'uomo continuò a pensarci su.

No, non mi pare proprio di ricordarli – disse infine. – E sì che di passeggeri non ce ne erano poi molti.

Il commissario guardò l’orologio. Si erano fatte le undici.

- Va bene, signor Cotillard. La ringrazio per il tempo dedicatomi.

Detto questo si alzò, gli tese la mano e si avviò al vicino ingresso. Uscendo, non seppe resistere alla tentazione di premere il campanello. Un suono fragoroso e grossolano riecheggiò nel piccolo ambiente.

Ci avrebbe scommesso!

- Scusi – disse al suo dirimpettaio. Quello non rispose né si produsse in un mezzo sorriso, limitandosi a restarsene piantato sulla soglia al pari di una pianta che sbarri l'ingresso agli sbirri.

Raggiunta la sua auto Georgel vi salì e si diresse là dove abitava Blanchard, il capotreno che due giorni prima si trovava su quello diretto a Berlino. La zona in cui l'uomo risiedeva era decisamente migliore di quella abitata da Cotillard perché più elegante e non priva di piante che non richiamavano a causa della loro cupezza gli alberi dove i ladri dell'Ottocento erano soliti impiccare i viandanti dopo averli derubati.

La casa era a tre soli piani, risalente a forse trenta, quarant’anni prima. Non c'era portineria, e vista quella nella quale era appena stato, di certo era meglio così. Guardò la schermata dei campanelli. Blanchard era presente. Ma non in casa, poiché a rispondere fu la moglie, che saputo della presenza in strada della polizia si spaventò come se le avessero annunciato che il marito era morto.

- Vorrei potergli parlare – disse Georgel. – Sapete dove posso trovarlo?

- Di solito è al bar “Le Canard”, a duecento metri da casa. Si trattiene fino all'ora di pranzo dopo avere

 bevuto un aperitivo. Uno quando va bene.

- Allora ci vado prima che ne beva uno di troppo – disse alla donna.  

- Va bene – rispose lei.

Georgel si avviò a piedi dopo avere chiesto a un tale incrociato per strada dove il bar summenzionato si trovasse. Quello glielo indicò. Era in effetti poco lontano da lì, un locale come ce ne sono tanti in città, né grande né piccolo, né bello né squallido, frequentato da aficionados ai quali ogni tanto si mescolavano forestieri, come lui in quel caso. Dietro il banco una giovane donna, una ragazza che pareva messa lì come attrazione per i clienti. E di certo c'era chi era solito andarvi per poterla rivedere e scambiare due parole con lei, nell’illusione che il giovane, che ancora dentro di sé albergava, potesse trapelare anche all’esterno. L’interno invece del locale ospitava una decina di persone, che con la cinquina esterna costituiva un numero sufficiente a che il bar potesse dichiararsi soddisfatto.

Antonio Mecca

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