IL GIOCOLIERE DELLA LETTERATURA 33

Rimasto solo, lo scrittore cominciò a pensare. Tanto per cambiare. Perché lui pensava sempre; mentre scriveva e soprattutto quando non scriveva. La sua mente era come una trottola azionata dalla propria leva che girando su se stessa percorreva una stanza o un tratto di strada e che: una volta fermatasi, si rovesciava su se stessa, come la capsula di un missile spaziale. Gli occhi semichiusi, Frédéric riandava con la memoria indietro nel tempo, a quel settembre 1965 quando fu ricoverato in ospedale giungendovi in coma. Aveva tentato il suicidio, allora, perché diviso tra l’affezione a Odette - la prima moglie - e l’innamoramento profondo, intenso, sublime per Francoise, la giovanissima figlia del suo editore. Preso da una tensione insopportabile era salito su una sedia, si era passato intorno al collo una corda e dopo avere respinto la sedia con un calcio era spenzolato per un po’ fino a perdere i sensi. La ragione, invece, l’aveva persa molto tempo prima. Ma la moglie, la quale aveva avvertito il rumore provocato dalla sedia scivolata sul pavimento, avendolo chiamato e non avendo ricevuto risposta si era precipitata nello studio, aveva trovato il marito spenzolante e privo di sensi e - con l’aiuto della domestica - era riuscita a tenerlo sollevato fino a quando avvertiti per telefono erano sopraggiunti i pompieri, che lo avevano liberato e trasportato con urgenza all’ospedale. Dieci anni dopo, in un romanzo che segnava l’abbandono temporaneo del commissario al corpo di polizia per intraprendere la carriera di detective privato, aveva fatto vivere anche al suo personaggio i medesimi tormenti da lui vissuti anni prima. Gli scrittori sono fatti così, devono riportare le proprie emozioni sulla carta, che ne filtrerà il senso trasmettendone l’essenziale. E l’essenziale consisteva in questo: quanto tempo ancora gli era rimasto? Stava per uscire la seconda parte di un suo racconto la cui prima parte era uscita in marzo. Avrebbe di lì a poco iniziato un lungo romanzo comprendente tutti i suoi personaggi, principali e secondari, che nell’arco di cinquant’anni erano apparsi nelle storie col commissario. Intendeva farlo uscire entro dicembre, tanto per concludere in bellezza l’anno di festeggiamenti. Poi, l’anno successivo, se ancora fosse stato al mondo, sarebbe stata - forse - una rinascita. Non solo un nuovo anno, ma l’inizio di un nuovo millennio, l’inizio di una nuova era comprendente due anni dopo una moneta unica per l’Europa tutta, e quindi addio Franco. Quei due figli di puttana avevano fatto in tempo ad incassare la somma con la vecchia moneta, e buon pro gli faccia! Anche se l’ingresso nell’euro era di lì a tre anni.

Marie-come-diavolo-si-chiamava e Joseph, la moderna fiaba di Maria e Giuseppe riveduta e corretta dalla corrotta epoca attuale.

Chiuse gli occhi. Non soffriva, non sentiva nulla, non avvertiva neppure la presenza del cuore. Ma ce l’aveva mai avuto, un cuore?

Si ricordò di una sua frase scritta 26 anni prima, nel suo più lungo romanzo con Antoine protagonista:

“Noi non accettiamo la cessazione”.

Perché vivere è procedere nel tempo, è navigare nel fiume dell’esistenza, quasi a voler raggiungere la fonte

dalla quale si è nati, il liquido amniotico che ci ha formato, il mistero primario che ci ha consentito di affacciarci al mondo.

Sentiva i rumori esterni tipici di un corridoio di ospedale. Carrelli che venivano sospinti e poi fermati; rumori metallici provocati da attrezzature mediche; camminare veloce di personale medico e paramedico. E su tutto, quell’odore caratteristico né gradevole né sgradevole che sa di riposo forzato, di malattia tenuta sotto controllo, di pausa che la vita ti offre quando si soffre. Le lenzuola pulite che avvolgono come bende un bebè mostruoso. Una nascita alla rovescia, un passaggio a un’altra vita, a un’altra esistenza, a un’altra resistenza, un sudario pronto a coprire anche il volto.

Gli anni, i decenni, erano trascorsi a gran velocità, senza avere avuto quasi per nulla il tempo di voltarsi indietro. E così, via un romanzo dopo l’altro, una sceneggiatura di film via l’altra, una pièce teatrale a seguire quella precedente. Fra le une e le altre c’era stata la vita reale con la sua prima famiglia, poi la seconda, le due mogli e i tre figli, di cui il primogenito aveva anch’egli intrapreso la carriera di scrittore con notevole bravura. Scrivere era stato per Frédéric l’essenza stessa della vita, il tuffarsi in un mondo parallelo più sostanziale che non quello reale. Perché lì era lui a decidere, ad essere il deus ex machina della situazione. Qui invece no.

Gli occhi gli si chiusero, la mente invece no. E il sonno lo avvolse al pari di ovatta imbevuta di alcool per uso medico.

Antonio Mecca

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