IL GIOCOLIERE DELLA LETTERATURA 43

Frédéric Darc smise di scrivere intorno alle nove. Quella mattina si era alzato alle sei, come spesso gli succedeva, e dopo un’abluzione veloce si era vestito, aveva raggiunto lo studio appartato dal resto della casa e si era seduto davanti alla macchina per scrivere elettronica. Quella era la sola concessione alla tecnologia da lui fatta, perché di computer e affini non aveva mai voluto sentire parlare. Gli piacevano le vecchie, care abitudini che da anni e per anni si trascinava dietro, con la carta da infilare nel rullo e sulla quale battere le parole, il rumore degli stampini di alluminio con le varie lettere dell’alfabeto, il concretizzarsi di pensieri e descrizioni componenti pagine e capitoli. Ogni tanto si fermava a rileggere gli ultimi passaggi, per poi riprendere. Da diversi anni, venti per la precisione, aveva smesso di essere troppo prolisso in certi discorsi per riprendere quello che per i primi vent’anni era stato il suo stile: veloce, arguto, rapido e sapido.

Era stato, quello, un ritorno alle origini, al procedere in apparenza sicuro che la sua giovinezza gli aveva saputo garantire. Indietro non si torna, d’accordo, ma si può comunque tentare di rimettersi in carreggiata con il passo di allora, che almeno nella finzione si può anche recuperare. Aveva lasciato il suo commissario al termine di una scena d’azione brillantemente condotta. Sorrise.

Con il passare degli anni, e l’accumularsi delle storie a lui dedicate, aveva finito per crearsi una simbiosi e identificarsi nel personaggio trasmettendogli la propria anima, tanto che si era andata verificando questa curiosa cosa: che pur essendo un personaggio di fantasia, pur catapultandolo in situazioni impossibili, chi leggeva queste storie finiva in qualche maniera per credere in ciò che veniva raccontato. Un po’ come nei romanzi con Marlowe scritti da Chandler. Perché gli autori instillavano molto di sé stessi in loro, quasi - sebbene il paragone fosse di certo azzardato - come il soffio di Dio nelle creature da Lui poste in vita.

La porta si aprì, e Francoise apparve.

- Frédéric: sei pronto? Il tassì sarà qui a momenti.

- Sono pronto - rispose lo scrittore. - Ne ho approfittato per proseguire col romanzo.

Lei lo guardò con affetto.

- Scrivere è la cosa che preferisci in assoluto, vero?

- Quella perlomeno che si può dire.

- Va bene: allora andiamo?

Lo scrittore fissò il foglio lasciato appositamente sul rullo, e la risma di quelli già scritti che ammontavano pressappoco a una metà del romanzo. Li guardò con affetto, l’affetto provato da un padre verso i propri figli che l’occhio paterno vede crescere, affacciarsi alla vita. Lui invece era in procinto di congedarsi, dalla vita, ma non gli importava granché. Aveva fatta la sua parte, e l’aveva fatta bene. I suoi tanti libri lì conservati stavano a testimoniarlo.

Dopo un ultimo sguardo al ripiano della scrivania lasciò la stanza, seguendo la giovane moglie lungo il corridoio e la stanza di soggiorno. Le valigie erano lì, pronte per venire caricate sul tassì, che era arrivato.

Se stava fermo in attesa. I due domestici, marito e moglie, caricarono i bagagli sull’auto pubblica, al cui volante si trovava un giovane provvisto di baffi ancora con il loro colore naturale. Dopo i saluti di prammatica l’auto lasciò la proprietà dei coniugi Darc e si diresse attraverso stradine interne fino a raggiungere la strada statale che immetteva nell’autostrada. Direzione: aeroporto di Ginevra.

Frédéric osservava molto parlando poco. A parlare ci pensava la moglie, che seppur non esagerando con la parlantina manteneva vivace la conversazione ponendogli di tanto in tanto domande alle quali lui prontamente rispondeva, perché buon ascoltatore nonché educato compagno. La natura come sempre lo affascinava, per cui era capace di viaggiare per ore osservando l’esterno e ammirandone la vegetazione. Quando giunsero all’aeroporto, il taxi li condusse al gate A, e lo scrittore guardò il tabellone, fra le destinazioni presenti il nome della città di Venezia dove erano diretti, un sorriso gli dipinse la parte sottostante del volto, il volto di un clown malamente struccato, come spesso amava o si auto affliggeva di definirsi. A Venezia era andato molte volte, ambientandovi anche diverse storie. Trovava che non vi si tornasse mai a sufficienza, in quella città che andava ben oltre la sufficienza. L’aveva amata sin dalla prima volta che l’aveva visitata, perché bella e unica. La città più originale del mondo, magica nonostante i suoi difetti, affascinante e misteriosa, intrigante ed enigmatica, seducente e qualche volta indecente.

Quando si era lì si veniva catapultati nel suo lontano passato, illudendosi di essersi lasciati alle spalle il mondo odierno, la società attuale, la confusione, il rumore, la comunicazione ossessiva e ossessionante dei moderni mezzi tecnologici.

Il viaggio in aereo fu comodo e veloce, e in capo a un’ora il velivolo era già in fase di atterraggio. Scesero dall’aereo per salire sull’autobus che li avrebbe condotti al terminal, lui sedette ad un posto libero, con la soddisfazione dei vecchi ai quali si offre la possibilità di riposarsi. Lei invece rimase in piedi al suo fianco, quasi a vegliarlo. Si chiese chi glielo avesse fatto fare, trent’anni prima, alla giovanissima Francoise di mettersi insieme a un uomo già vecchio allora. E’ che fino a quando non si piomba nella vecchiaia autentica non si può veramente sapere, per quanto si dovrebbe invece prevedere.

Recuperati i bagagli lasciarono il terminal e approdarono all’esterno dove la lunga fila di taxi era lì situata.

Aiutati da un apposito addetto salirono sul primo della fila libero e chiesero all’autista di condurli al molo, da dove avrebbero preso un motoscafo che li avrebbe condotti all’hotel Excelsior. Il clima era freddo nonostante il sole alto nel cielo, ma si era a fine dicembre, e quindi non ci si poteva aspettare di più.


Antonio Mecca

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