INCONTRO AL LAGO

Di Albertina Fancetti
Capitolo nove

Quando Luciano uscì dalla casa di Lord Byron era notte fonda. I vicoli bui erano deserti e il solo rumore che turbava l’oscuro silenzio era il lontano muggito delle acque tumultuose, che si agitavano all’interno del Tombon de S. Marc. Ancora scosso dall’inquietante seduta spiritica, nonché dagli strani personaggi che vi avevano partecipato, rimase alcuni instanti fermo al centro della strada, volgendo un ultimo sguardo alle finestre del primo piano, che ora apparivano buie, come se la casa fosse stata disabitata. Non sapeva dove andare a cercare un rifugio per passare il resto della notte, sebbene non si sentisse affatto stanco. Provava una gran voglia di camminare, doveva soltanto scegliere la direzione da prendere. Un miagolio attrasse la sua attenzione ed egli volse lo sguardo verso il fondo della strada, dove quella sera aveva visto scomparire l’orrido nano.
Due occhi verdi, simili a fanali luminosi lo stavano osservando nel buio, mentre un secondo miagolio più sonoro e distinto lacerava il silenzio della notte. I denti bianchi di Luciano brillarono nell’oscurità, mentre un largo sorriso gli si apriva sul viso. Si diresse lentamente verso il grosso gatto grigio che sembrava attenderlo seduto al centro del vicolo.
«Ciao Aquilino! Sei venuto a farmi strada anche questa volta?» esclamò accarezzandogli il folto mantello, mentre il micio curvava la schiena flessuosa con evidente piacere.
Quindi si mise a camminare davanti a Luciano, con la sua andatura altera ed elegante, appoggiando al suolo le robuste zampe come fosse il padrone della città. A tratti volgeva la grossa testa per accertarsi che Luciano lo seguisse e la luce fioca di un lampione isolato rifletteva bagliori d’ambra nei suoi occhi. Lo condusse fuori dal quartiere, attraverso altri vicoli che si snodavano misteriosi tra vecchi edifici silenziosi, lontano dalle acque agitate del Tombon. Camminarono fino a un vasto parco, oltre un fitto boschetto di alberi frondosi che la brezza notturna faceva sussurrare al loro passaggio, ma non vi era nulla di sinistro in quel mormorio, sembravano uno stuolo di cortigiani che stessero indicando il passaggio di un personaggio importante. Aquilino, infatti, continuava a procedere con disinvoltura, senza dare alcun segno di inquietudine. Luciano si guardava attorno in quel paesaggio magico, godendosi ogni istante dell’insolita passeggiata notturna. Improvvisamente furono fuori dal bosco, la grossa luna piena splendeva nel cielo di velluto nero, riversando la sua luce argentea sull’erba di un prato che declinava dolcemente fino all’oscura sagoma di una cattedrale, nella quale Luciano riconobbe lo stile romanico della basilica di S. Lorenzo. Il gatto si insinuò nell’erba alta, attraverso un sentiero che lui solo conosceva, conducendolo fino a un ponticello di legno gettato sopra un largo fossato dalle acque maleodoranti, che conduceva alla porta della sacrestia. Aquilino si sedette sulle zampe posteriori grattando furiosamente l’uscio di legno con le poderose unghie di quelle anteriori, mentre le sue fauci rosate si aprivano e un lamentoso miagolio si innalzava verso le finestre della chiesa. Luciano guardò istintivamente verso l’alto, si aspettava l’arrivo di una secchiata d’acqua. Il tenue lume di una candela brillava attraverso gli stretti pertugi, scendendo lentamente quella che sembrava una scala a chiocciola. Alcuni minuti più tardi la grossa serratura che chiudeva la porta della sacrestia fremette al suono stridulo di un pesante chiavistello che scorreva al suo interno e l’uscio si socchiuse lasciando trasparire una debole lama di luce.
«Aquilino! Ti sembra questa l’ora di rientrare?» borbottò una voce assonnata.
«Miao!» rispose il gatto in tono insolente, restando immobile, seduto davanti alla porta.
«Allora che succede? Non vuoi entrare?» sussurrò il monaco con voce stizzita, sporgendosi verso l’esterno. Fu allora che vide Luciano, in piedi dietro al gatto, con il più innocente dei suoi sorrisi stampato sul volto. Il vecchio sagrestano sobbalzò dalla sorpresa.
«E voi chi siete?» domandò scrutandolo da capo a piedi, soffermando lo sguardo sui suoi jeans sbiaditi e le scarpe sportive. Luciano gli tese la mano presentandosi e il monaco la strinse fra le sue con riluttanza.
«Suvvia entrate… è pericoloso rimanere fuori a quest’ora da briganti!»
Rientrarono in fila: il sagrestano, Aquilino e infine Luciano. Si trovarono all’interno di una torre sulla quale si ascendeva mediante una scala scavata nella pietra. Il monaco prese a salire ciabattando nei suoi sandali di legno legati con listelli di cuoio marrone. Nella mano tremante stringeva una bugia che conteneva un mozzicone di candela, insufficiente a illuminare i ripidi gradini. Quando il gatto, impaziente, gli sgattaiolò fra gambe lanciandosi sulla scala, barcollò pericolosamente e sarebbe scivolato all’indietro se Luciano non lo avesse sorretto con decisione.
Il monaco gli rivolse uno sguardo riconoscente.
«Siete un bravo giovane» disse.
Quando la salita ebbe fine si trovarono davanti a un'altra porticina, già socchiusa dal passaggio di Aquilino. Passarono sotto un’ arcata che si apriva verso un corridoio rischiarato dalla luce di alcune torce infisse sulle pareti. Il monaco proseguì fino alla soglia di una minuscola cella dal pavimento di legno, sopra il quale era gettato un pagliericcio. Un catino di ceramica sbeccato e annerito e un pitale, che suscitò la perplessità di Luciano, completavano l’arredamento. Sulle pareti nude era appeso un crocefisso e da una stretta finestrella priva di vetrate entrava la brezza frizzante della notte.
«Potete dormire qui… domani parleremo» disse il monaco lasciandolo solo nella stanza.
Luciano si buttò vestito sul pagliericcio che odorava di fieno, subito si preoccupò per la sua allergia: temeva che gli sarebbe insorto un attacco d’asma. Invece non accadde nulla, rimase coricato con lo sguardo volto alla finestra dalla quale entrava un benevolo raggio di luna, assaporando quel dolce profumo e ricavandone soltanto un effetto rasserenante. L’ultima cosa che vide prima di cadere nel sonno fu la luce ambrata degli occhi di Aquilino e ne avvertì il calore, mentre il micio gli si accoccolava accanto dividendo con lui il pagliericcio.


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