LA BANALITÀ DEL MALE

La guerra razziale frutto dell'odio umano

"Fu la prima volta che vidi la brutalità dei tedeschi". Questa frase di Hannah Arendt, filosofa tedesca di etnia ebrea nata ad Hannover nel 1906 e morta negli Stati Uniti nel 1975, si trova nel suo libro "La banalità del male", titolo originale: "Eichmann a Gerusalemme", resoconto scritto in varie puntate per il "The New Yorker" fra l'estate e l'autunno del 1962, che vedeva come imputato Adolf (nomen omen) Eichmann, corresponsabile della orribile morte di milioni di ebrei. Il titolo italiano del libro: da molti criticato perché forse troppo riduttivo e quindi non comprensibile a tutti, sta a sottintendere l'incredibile agire di molti militari tedeschi che partendo da un ordine emesso dal loro capo che aveva stabilito la grande e progressiva eliminazione degli ebrei, perché -secondo lui- razza impura e demoniaca. Obbedirono senza colpo ferire all'ordine di Hitler, conducendo una guerra parallela a quella principale decisa da quel mostro con baffetti. Che gli ebrei non fossero piaciuti a molti per secoli spesso confinati in quartieri ghetto, è notorio. Forse perché un ebreo: Giuda, era stato il traditore che aveva permesso al romano Ponzio Pilato di arrestare Gesù per crocifiggerlo, forse perché la figura dell'ebreo è accomunata a quella dell'usuraio, forse perché molti di loro seppero arricchirsi con il duro lavoro e diventare industriali, banchieri, produttori cinematografici, scienziati, scrittori, artisti, suscitando invidia e odio. Tutto questo non spiega la ferocia con la quale nei primi decenni del secolo scorso, dalla metà degli anni Trenta alla metà degli anni Quaranta, pressoché un intero popolo rimase passivo a vedere deportare una parte della sua stessa gente da destinare in campi di concentramento dove o finivano da subito uccisi con il gas, oppure in seguito dopo lavori sfibranti e spesso inutili, e durante questo martirio fatti oggetto di violenze di ogni tipo e bersagliati di continuo. Un orrore del genere non ha paragone con nessun altro, compreso quello relativo ai morti vittime del comunismo titino uccisi e scaraventati nelle foibe carsiche, un qualcosa di tragico che a lungo è rimasto occultato, è vero, e del quale si sarebbe potuto e soprattutto dovuto parlare da tempo e per tempo. Ma quello che è successo a milioni di persone appartenenti a una determinata etnia in vari Paesi dell'Europa non può neppure ora: sebbene a distanza di quasi un secolo, venire mantenuto a distanza. Qualcuno ha detto: fra tutti quei morti, soprattutto bambini, giovani, quanti geni ci sarebbero stati, di quanti medici, artisti, scienziati ci avranno privati? E comunque: quando una persona muore, muore con essa un intero mondo, un universo di pensieri, di fatti, di emozioni che non può lasciare indifferenti. Eichmann e molti capi del suo stampo uccisero milioni di esseri umani senza un odio particolare, ma con la freddezza di un burocrate intento nel pianificare un eccidio su larga scala, una scala che partiva dal buio dell'inferno per salire al buio di menti ottenebrate dall'odio di razza. Quale bisogno c'era di sterminare e distruggere - anche da noi - paesi interi con i suoi abitanti? Tutto ciò non è giustificato dalla frase: "Obbedivo agli ordini", perché una minore dose di crudeltà da parte di tutti: dal capo in testa al soldato in coda, si poteva benissimo attuare. Ma l'obiettivo era quello di privare i prigionieri della propria individualità, fino a renderli numeri. Il libro di Hannah Arendt che all'età di 27 anni, nel 1933, lasciò la madre patria per trasferirsi nell'America del Nord, è un libro che andrebbe letto da tutti per comprendere quello che accadde in una consistente parte del mondo. Mi piace concludere con un brano di Frédéric Dard - Sanantonio, che in un suo romanzo del 1975 scrisse:

"Io in Prussia, non mi vedrai mai mettere piede. Le rare volte che mi ci sono arrischiato ho avuto l'impressione che da un momento all'altro mi avrebbero caricato in qualche furgone a calci nel treno posteriore, per portarmi a mirador's land. Solo davanti ai germanici, recalcitro. Non posso impedirmi di pensarli orda, capisci? Di vederli in toni verdastri, elmettati, stivalati, la cintura guarnita di bombe, simile a un albero di morte dai frutti velenosi. Ecco, mi fanno evocare la morte; è questa, la mia profonda reticenza. E non una morte amica, pigra, languida. Mai più. Una morte dura, abbaiante, feroce. Una morte schifosa, una morte che finisce male: la peggiore, no?" 

Antonio Mecca

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