MARZO

Inizia oggi e continua sempre alle 22 il racconto poliziesco di Macc Tony

Quella notte così chiara e stellata gli ricordava le notti di primavera che era solito vedere tanti anni prima, in un’altra epoca e luogo, in un’altra età e stato d’animo. Oramai, era più che raro unico il manifestarsi di un cielo del genere, cosa che invece fino a qualche decennio prima sarebbe stato più che normale vedere tutte quelle stelle luccicare come anime di bambini non ancora appannate dal velo di sporcizia che l’esistenza è solita infliggere.

Aspettava da circa mezz’ora, seduto su una panchina situata di fronte a un muretto al di là del quale era possibile ammirare una parte notevole di quella stupenda città. Il quartiere era composto nella sua massima parte di edifici solidi come il secolo che li aveva partoriti, quell’Ottocento che nella memoria storica rappresenta un periodo solido per via dell’autorevolezza trasmessa dagli abiti e dalle acconciature delle persone mostrate nelle fotografie e nei dipinti. Sebbene la realtà fosse spesso un’altra, e quella serietà tanto sbandierata nei ritratti spesso venisse contraddetta dal comportamento dei singoli. Come quel tale che stava aspettando affinché terminasse i propri comodi, persona regolarmente sposata ma che viveva una seconda e terza vita al di fuori del matrimonio. L’uomo spesso si domandava perché non richiedere la separazione legale se il proprio coniuge non soddisfaceva più, perché infrangere un giuramento consacrato da una formula religiosa o sancito da una civile andando a cercarsi altri terreni di pascolo e lasciando inaridire quello che solo doveva spettare – e rispettare - per diritto e dovere.

Sentì dei passi risuonare sulla strada.

Da dove sedeva vide un uomo – quell’uomo – dirigersi verso la sua automobile parcheggiata.

Si alzò. L’arma gli scivolò fra le mani, e lui scivolò alle spalle dell’uomo che fermo a fianco della portiera della propria auto cercava in tasca le chiavi. Più che sentirlo ne intuì la presenza, per cui di scatto si voltò. La larga lama del grosso coltello lo colpì al collo, affondando nella carne e soffocando nel sangue l’urlo di sorpresa, di terrore e di dolore che l’acciaio della lama gli aveva procurato. La voce uscì strozzata, gorgogliante nel sangue che copioso fuoriusciva sprizzando come impazzito e imbrattando i vestiti dell’assalito e dell’assalitore, e quel sangue che rosso cupo usciva, sciamava quasi, pareva avere la medesima furia di una folla costretta per lungo tempo in un piccolo spazio e ora finalmente libera di espandersi e disperdersi. La lama colpiva scendendo sul torace e poi sul ventre, per poi risalire nuovamente al torace e al collo e al volto perché l’uomo si andava gradatamente afflosciando sulle ginocchia come il mantice di una fisarmonica che va richiudendosi. E mentre la vita andava sempre più abbandonando quel corpo straziato, deturpato, sfregiato, e la luce negli occhi andava sempre più spegnendosi, l’assassino vibrò un ultimo, definitivo colpo alla schiena della sua vittima, per poi scappare lontano da lì con la lama rossa di sangue che pareva la rossa freccia di un autoveicolo dei primi decenni del Novecento uscita come una lama dal corpo macchina per segnalare una svolta del conducente. Questa invece era uscita dal corpo umano insieme alla vita dell’assassinato, il quale ora non era molto di più di un manichino afflosciato su se stesso.

Il manichino afflosciato su se stesso, o quello che a prima vista pareva tale, giaceva riverso sulla strada, e l’unica nota di vita che ancora in lui persisteva era data dal rosso del sangue versato. Ricordava il colore dato da un pittore folle mediante schizofreniche pennellate, quasi la firma di Walter Sickert immedesimatosi nel suo alter ego Jack lo Squartatore. Due automezzi turbavano, insieme ai loro occupanti riversatisi in strada, la pace della notte romana, il profumo di primavera imminente, la luce dell’alba che molti quel giorno non avrebbero più visto compreso l’uomo riverso sul selciato. Gli altri uomini presenti – questi qui vivi – erano sei. Due medici infermieri, un fotografo, tre poliziotti. Gli automezzi fermi di traverso alla strada erano costituiti da una bianca ambulanza e da una azzurra autoradio, che illuminata dal doppio faro intermittente dell’ambulanza riceveva lampi di un azzurro più intenso che andavano a rinforzare l’azzurro pastello del suo colore originario, quasi a voler rendere più cupo un lavoro: quel lavoro, che i suoi occupanti si accingevano a compiere. Dietro di loro un piccolo capannello di persone fissava incuriosito gli uomini addetti al cadavere. Uno dei tre poliziotti che era anche l’unico in borghese si presentò ai medici non appena ebbe visionato la scena del crimine.

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