RIVEDENDO IL "LUNGO ADDIO"

Dal capolavoro di Chandler al film di Robert Altman

Serata passata a cercare di vedere un vecchio film del 1973 in VHS. Ma il video è spesso con il quadro che salta verticalmente o si blocca pur non fermandosi l'audio, e il film: "Il lungo addio", è inguardabile almeno per me anche per via della disinvolta regia di Robert Altman, che prende un'icona della letteratura passata come Philip Marlowe e la fa incarnare da un suo attore feticcio quale Elliott Gould, che potrebbe anche passare nel ruolo del detective privato di Chandler, ma mentre questi è un battutista che centellina le battute degli splendidi dialoghi scritti dal suo autore l'altro è invece uno scanzonato individuo che fa soltanto lo scemo senza divertire. Inoltre, fuma in continuazione. Una sigaretta spegne e un'altra accende, spesso proprio in diretta, tanto da chiedersi come potrebbe un viziato simile sopravvivere più di tanto. Probabilmente la brillante idea - brillante come una scarpa lucidata ma che sempre una scarpa sfondata rimane - è da ascrivere al regista, che così agendo dimostra di essere tutto fumo e niente arrosto, confezionando un film assurdo che del capolavoro di Chandler conserva solo i nomi dei personaggi ma non ne preserva la dignità. Meglio sarebbe stato se fosse accaduto come per i due film con Paul Newman tratti dai primi due romanzi di Ross Macdonald, dove Archer viene chiamato Harper perché il divo era convinto che i nomi con l'H iniziale gli portassero fortuna. Invece di mettersi l'H in testa avrebbe dovuto mettere lacca sulla testa, così da mantenere fermi -se non le idee- perlomeno i capelli! 
Chandler nel romanzo proiettò, nella figura dello scrittore alcolizzato Roger Wade, se stesso, anche se al contrario di lui che era magro e debole ne fece un omone grande e grosso molto simile ad Hemingway, che lui apprezzava non poco e che difese in una sua lettera del nove ottobre 1950 a proposito del suo romanzo "Di là dal fiume e tra gli alberi", affermando che il libro non era un capolavoro ma restava il suo autore pur sempre un campione.
Suppongo che per scrivere quel genere di libri sia necessaria un'infinita vitalità. La sceneggiatura di questo film ordinario era stata affidata a Leigh Brackett, una delle poche sceneggiatrici che già aveva sceneggiato in precedenza: 1946, un film tratto da un libro di Chandler: "Il grande sonno", dove l'investigatore era interpretato da un Humphrey Bogart che seppur tabagista nei film e purtroppo anche nella vita non arrivava comunque a tramutare Marlowe in uno Yanez da operetta. Chandler era nato il 23 luglio 1888 e morì il 26 marzo 1959. Quindi, avrebbe potuto essere ancora vivo quando il film di Altman uscì, il 7 marzo 1973. Avrebbe avuto 84 anni, e sarebbe stato interessante sapere come avrebbe reagito, lui così bizzoso nei vari momenti della vita. Se avesse avuto ancora la creatività che purtroppo dalla seconda metà degli anni Cinquanta era andata scemando e avesse scritto qualche altro romanzo affiancandosi al suo grande discepolo Ross Macdonald è probabile che il suo stile non sarebbe mutato più di tanto, mantenendosi costante nella qualità delle battute, delle similitudini, del sentimentalismo. Perché se già proprio con "Il lungo addio" lo stile si era un po' modernizzato guadagnandoci perché sfrondato di una scrittura troppo sovraccarica di orpelli descrittivi, il nocciolo e non solo il nocciolo ma anche la polpa del "pulp" avrebbe rappresentato pur sempre un gustoso frutto da assaporare piacevolmente. Soltanto un anno dopo: 1974, l'uscita di "Chinatown" il 20 giugno, diretto da Roman Polanski con Jack Nicolson nel ruolo di un detective privato che somiglia al detective John Dalmas di Chandler e ambientato nella Los Angeles del 1937 (data speculare di 1973) avrebbe rappresentato il film più chandleriano - per la regia, la sceneggiatura, la fotografia, la musica - fino ad ora uscito e che Raymond Chandler avrebbe quasi di sicuro apprezzato riconoscendolo come una sua creatura trasversale.

Antonio Mecca

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