TRASFERTA ITALIANA 17
- 29 dicembre 2021 Cultura

A interrogarci fu il commissario Scalise, che io avevo già avuto modo di
conoscere ai tempi dell’EXPO, quando una ragazza di nome Samantha che aveva
lavorato come cameriera in un bar dell’area interna alla Fiera era stata
brutalmente assassinata. Scalise ascoltò quello che avevo da dire al riguardo,
giungendo a interrogare in un inglese raffazzonato anche Stevens nonché
l’agente di polizia dell’auto civetta. In quanto al commissario Anselmi era
stato ferito gravemente, ma se la sarebbe cavata. Hans era morto. Vania Titova
raccontò in un italiano corretto molto più della sua moralità di avere
consegnato le carte inerenti i segreti militari riguardanti alcuni nuovi
modelli di aerei ad Hans, e infatti queste gli furono trovate addosso e di lì a
poco restituite alla fabbrica dalla quale erano state trafugate. Frank Stevens
ottenne l’autorizzazione a fare ritorno in America, dove avrebbe provveduto a
informare il suo cliente su quello che la sua fidanzata altro non era.
Il giorno successivo al mio ritorno a Los Angeles mi misi in contatto con
Arnold, il mio cliente. Ci demmo appuntamento a casa sua, situata nella
periferia benestante di Los Angeles, a Pasadena. Ci arrivai in auto verso le
quattro pomeridiane, quando il sole cominciava a splendere meno e le persone a
boccheggiare al cinquanta per cento. La casa, se tale si può definire un
castello che si espandeva più in larghezza che in altezza era un mega villone
tutto intonacato di bianco su tutti i suoi tre piani e con il tetto
rosseggiante per il colore rosso vino. Il verde relativo alle piante era
generosamente e forse incoscientemente dovuto alla gran quantità di acqua
utilizzata, che in un Paese come la California del Sud è, oltretutto d’estate,
appare sempre uno spreco. Un uomo secco, lungo e allampanato, rivestito di una
divisa che pareva classificarlo come capocameriere, o maggiordomo, oppure
supervisore degli altri domestici lì impiegati, avanzò verso di me fermandosi a
debita distanza, forse per non restare contaminato dall’odore proletario che
emanavo.
- Cosa posso fare per lei? – chiese con voce inamidata come la sua camicia.
- Forse avvicinarsi di più a me per sentire meglio – replicai. – Non mordo
mica, anche perché i miei denti preferisco piazzarli su carni più pregiate.
Lui assunse un’espressione stupita sulla faccia a sellino di bicicletta,
magra e allisciata com’era dal continuo contatto di chi ci si sedeva
sopra.
- Sono atteso da Mr. Arnold. Il mio nome è Stevens. Frank Stevens –
precisai alla maniera di “Bond. James Bond”.
- Sì, il signore mi aveva avvisato. Si accomodi, Mr. Stevens.
Lo seguii all’interno dell’edificio, dove una piacevole frescura che non
sembrava prodotta dai condizionatori avvolgeva le persone che lì ci vivevano.
Dopo un atrio largo e lussuoso, giungemmo in un soggiorno lussuoso e ampio, nel
quale poltrone e divani, tavolinetti e mobilia varia infondevano a chi ci
viveva una calma e una gradevole atmosfera, e a chi ci veniva per la prima
volta una certa inquietudine.
Il domestico mi fece accomodare, arrivando a chiedermi se gradivo qualcosa
da bere.
- Una limonata fresca rappresenterebbe l’ideale – decisi.
Lui annuì con aria di approvazione. Dopodiché si diresse a un bar tutto
cristalli molati e legno lucido, aprì le antine e ne tolse una caraffa di
cristallo piena per tre quarti di acqua dentro la quale galleggiavano diversi
limoni tagliati a metà. Depositò caraffa e bicchiere sul tavolino davanti a me,
riempì il bicchiere quasi fino all’orlo e poi me lo porse.
- Vado ad avvisare il signor Arnold del suo arrivo – disse, allontanandosi
alla mia sinistra.
Io sollevai il
bicchiere vuotandone di colpo la prima metà, e la seconda con più calma.
Dopodiché lo riempii nuovamente, prendendo a berne il contenuto con più
ragionevole tranquillità.
Antonio Mecca