TRASFERTA ITALIANA 3
- 02 dicembre 2021 Cultura

Era stato un viaggio lungo e noioso,
durante il quale avevo cercato di dormire il più possibile e di leggere -
sempre il più possibile – le pagine di un romanzo poliziesco che avevo già
letto più volte ma che ogni volta non mancava di ammaliarmi: “The Long
Good-bye”, di Raymond Chandler. La compagnia di Marlowe era per me ogni volta
gradevole, e con lui potevo stare certo di non annoiarmi. La mattina
precedente, dopo avere salutato il mio cliente avevo telefonato al collega
italiano Solmi, sottoponendogli un lavoro da svolgere in tandem, e lui aveva
accettato. Mi ero poi recato in banca per versare l'importo: alto, dell'assegno
sul deposito basso, del mio conto corrente e quindi recarmi all'agenzia di
viaggi per ritirare il biglietto del volo Los Angeles- Milano e prenotato una
stanza in un hotel milanese. Rientrato a casa, preparato il bagaglio, a
mezzogiorno raggiunto l'aeroporto centrale, nell’enorme parcheggio lasciai
l’auto. Il volo era annunciato per le tredici; sarebbe durato la bellezza più
che mai dubbia di quindici ore, con arrivo alle dieci del giorno seguente,
siccome in Italia erano sei ore indietro rispetto all'America e sessant'anni
almeno come Società. Dopo l'atterraggio, il tempo abbastanza lungo per sbrigare
le formalità doganali e il ritiro del bagaglio, ecco che finalmente fui libero
di approdare nella sala di arrivo. Individuai quasi subito Solmi, al quale
sorrisi e strinsi la mano, informandomi su come stesse.
- Bene, Frank. Fatto buon viaggio?
- Un viaggio in aereo, e così lungo poi, non è per me molto
congeniale. Ma non si poteva fare altrimenti. Trascinai il trolley fuori
dall'edificio, dove l'azzurro del cielo vinceva su quello del mio bagaglio alla
grande. L'auto italiana del mio collega si trovava all'aperto, nel parcheggio a
pagamento fronteggiante le entrate e le uscite. La sua macchina era un modello
di media grandezza, una Lancia color verde chiaro. Solmi aprì il bagagliaio e
vi depositò il mio trolley. Dopodiché salì a bordo dell'auto e aprì anche la
portiera che immetteva dal lato del passeggero. Mi accomodai stendendo le gambe
per cercare di rilassarmi.
- Stanco? – chiese il collega.
- Scocciato, più che altro. L’aereo stanca perché scoccia.
- Il viaggio è molto lungo, in effetti.
Lasciammo il parcheggio e di lì a poco l'aeroporto, imboccando
la strada che portava in città. Pur non essendo esente da traffico, non era
neppure lontanamente paragonabile a quello di Los Angeles, e non solo perché
assai lontano da lì. Non ero mai stato prima di allora in Italia, e se per
questo neppure in altre località d'Europa, per cui impegnai la vista per vedere
quello che mi si palesava allo sguardo.
- Dove si trova il tuo albergo? – chiese il collega.
- In un luogo chiamato via Andrea Costa, nei pressi di piazzale
Loreto.
- Dove hanno appeso Mussolini e i suoi scherani a testa in giù –
commentò lui parlando di Lui.
Io dissi: - Spero che il sangue che gli sarà sceso al cervello
gli sia servito per rinsavirlo.
- Era già morto quando l'hanno appeso. Mentre invece il Paese
era sul punto di rinsavire, finalmente.
Piazzale Loreto era una piazza tanto grande quanto brutta,
attorniata com'era da palazzi moderni - perlomeno lo erano al tempo in cui li
avevano edificati – e da grattacieli di sicuro funzionali ma ben poco gradevoli
alla vista. La via dove il mio hotel si trovava era invece costeggiata da
edifici fine Ottocento-inizio Novecento, alti non più di cinque piani. L'hotel
si chiamava Excelsior, era un tre stelle provvisto di ingresso a qualche metro
dal suolo al quale si accedeva tramite pochi gradini. Li salimmo e approdammo
alla reception, sita a sinistra dell’entrata. Un tale in livrea o quasi ci
accolse con un sorriso di benvenuto.
- Il signore ha prenotato una stanza qui – lo informò Solmi. – A
nome Stevens. Frank Stevens.
L’impiegato consultò un computer per poi confermare:
- Sì, ecco qui. Mister Frank Stevens. Prenotazione per una
settimana a partire da oggi.
Confermai la cosa.
- Se può mostrarmi un documento di identità…
Gli porsi il passaporto, che lui aprì e consultò con
professionalità. Dopodiché me lo restituì.
- Camera 72, quarto piano. L’ascensore si trova in fondo a
destra.
Mi voltai verso Solmi.
- Allora: ci vediamo all'una?
- Va bene. Andremo a pranzo in un buon ristorante nei pressi del
Duomo, in quella che voi americani
chiamate downtown. A dopo.
Lo salutai e mi diressi all’ascensore.
Antonio Mecca