TRASFERTA ITALIANA 8

- Prosegua ancora per qualche metro – raccomandai al mio autista – e poi si fermi. Lui eseguì. Io pagai la corsa e scesi. 

Tornai indietro di qualche metro fino a raggiungere l'imbocco della via dalla quale stava uscendo il taxi che avevamo seguito poco prima, e che svoltò a sinistra per tornare in centro città. 

A duecento metri di distanza campeggiava l'insegna dell'hotel “Parigi”. Sembrava un edificio modesto, ma pur sempre di tre stelle. Entrai. Alla reception si trovava solo l’impiegato.

- Buongiorno – salutai nel mio italiano stentoreo. – Vorrei una camera per tre giorni, ne avete una singola ancora disponibile?

- Sì, certo. Può favorirmi un documento…

Gli porsi il passaporto e lui ne scorse nome e dati. Quindi me lo restituì. Non fece commenti sul fatto che non avessi con me un bagaglio; del resto non era cosa che lo riguardasse. Poi mi consegnò la chiave numero diciannove. 

- Camera diciannove, secondo piano, - disse. L’ascensore è alla sua destra.

Lo ringraziai e mi diressi dove mi aveva indicato. La targa con i led luminosi color verde mela acerba metteva in risalto il numero tre. Premetti il pulsante “T” di terra e aspettai che la cabina arrivasse a destinazione. Una volta al suo interno premetti il tasto “Tre” e quando giunsi al piano selezionato uscii, percorsi lentamente il corridoio, accostando la mia fulgida figura alle porte delle camere presenti e allungando l’orecchio come il signor Thorson all’inizio dell’ottavo romanzo con Marlowe. E fui fortunato, poiché nel procedere lungo il corridoio mi pervenne all’udito una voce femminile che si esprimeva in lingua russa.

Mi fermai, per capire da quale stanza provenisse, era la numero 34. Siccome non capivo la lingua, mi allontanai dalla porta per allungare il passo non appena la voce si interruppe. E bene feci, poiché la porta si aprì di lì a poco mentre svoltavo l'angolo del corridoio e così la intravidi dirigersi verso l’ascensore. 

Aspettai qualche minuto, dopodiché feci ritorno alla porta 34. Tentai la maniglia, ma la porta rimase chiusa. Allora cavai di tasca un pass partout e iniziai a muoverlo nella serratura, con un orecchio rivolto lì e l'altro alla tromba della scala e all'ascensore. Quindi dalla serratura mi arrivò il segnale di via libera: la porta si era socchiusa. Meno male che si trattava di una serratura vecchio stile, altrimenti non mi sarebbe stato possibile forzarla. 

La stanza era di medie dimensioni, ancora intonsa. Vania non aveva disfatto il bagaglio, che si trovava posato sul letto. Oltre al giaciglio: a due piazze, erano presenti due comodini, un cassettone con specchiera e un armadio con specchio al centro, tutte cose che generalmente ci si aspetta di trovare in una camera d'albergo. A sinistra dell'ingresso la porta che immetteva nel bagno, questo sì meno intonso perché la donna lo aveva utilizzato per rinfrescarsi e rinfrancarsi e probabilmente pettinarsi, come stavano a testimoniare alcuni capelli neri che ancora si trovavano nel lavabo. 

Tornai nella stanza. Il bagaglio era semiaperto: probabilmente Vania vi aveva attinto la borsetta della toilette. Io ne perquisii con metodo l'interno, scostandone gli abiti con delicatezza. Fra questi ebbi modo di notare una gonna molto corta e una camicetta di seta, nera come la gonna. Sotto l'abito si trovavano un paio di scarpe anch'esse nere, provviste di tacco a spillo talmente lungo che avrebbero potuto se utilizzati come spille ferma banconote arrivare a trafiggerne un robusto mazzo composto di centinaia di biglietti.

Tolsi di tasca lo smartphone e scattai diverse foto del vestito e delle scarpe, dopodiché realizzai anche un filmato della stanza informando a voce Solmi al quale il tutto era indirizzato: che Vania si trovava nella stanza numero 34, al terzo piano dell'hotel Parigi, mentre io ero al secondo: alla numero diciannove.

Quindi gli inviai il materiale. Poi rimisi a posto le scarpe e il vestito, lasciai il bagaglio così come lo avevo trovato e cautamente abbandonai la stanza.

Antonio Mecca

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