Céline - Cristina Annino

IL MIO GATTO SI CHIAMA KOKO

Gli duole sempre la notte. 
A un certo punto non la vuole più. 
Entra dentro e dovunque sia non 
si vede, ma abbassa le sfere degli 
occhi a persiana: due clap 
di tegole anzi. Latra suona danza 
geme, partorisce la lava del buio 
sul pavimento, quasi fosse una pelle 
spirituale che non digerisce.

Questa casa comunque nel mirino, 
fatta e finita, perché la balistica non s’occupa 
di lei, né impronte 
digitali lasciano cordite nel talco. Neppure 
un furto colossale potrebbe 
portarsela via. Si sfalda 
dalle radici fino al tetto per micro
terremoti diurni notturni, dando
elasticità al tempo porcellana.
Il baby mirino del mento 
di lui  potrebbe fare miracoli
quando guarda la notte com’un topo 
nel vassoio freddo. Ma non spara
mai col suo pomo d’Adamo.
TROPPO UMANO

Lontana la calunnia, l’ubbidienza,
le virtù della caccia senza
offese, le prede finte. Distante 
sono da quel che avrei, se potuto 
era farlo; so che bastava poco, 
pochino, un pezzo, anche covando 
polvere sul tappeto. 

Mai 
ho sentito un discorso vero da 
Quelli, trappole in viso o sedie 
elettriche che parlandomi, pensavo 
carne al chilo, mai al pensiero. 
Elementare, figliolo! La 
panna delle cose montava, erano 
luci, grattaceli, scale interne, fili 
d’erbe senza colore. Sempre
le stesse parole. Poi alla fine,
restava un volo digitale per aria. 
«Che me ne faccio?» Si dicono 
troppe balle.