Céline - Cristina Annino
- 09 dicembre 2017 Poesia della notte
IL MIO GATTO SI CHIAMA KOKO
Gli duole sempre la notte.
A un certo punto non la vuole più.
Entra dentro e dovunque sia non
si vede, ma abbassa le sfere degli
occhi a persiana: due clap
di tegole anzi. Latra suona danza
geme, partorisce la lava del buio
sul pavimento, quasi fosse una pelle
spirituale che non digerisce.
Questa casa comunque nel mirino,
fatta e finita, perché la balistica non s’occupa
di lei, né impronte
digitali lasciano cordite nel talco. Neppure
un furto colossale potrebbe
portarsela via. Si sfalda
dalle radici fino al tetto per micro
terremoti diurni notturni, dando
elasticità al tempo porcellana.
Il baby mirino del mento
di lui potrebbe fare miracoli
quando guarda la notte com’un topo
nel vassoio freddo. Ma non spara
mai col suo pomo d’Adamo.
TROPPO UMANO
Lontana la calunnia, l’ubbidienza,
le virtù della caccia senza
offese, le prede finte. Distante
sono da quel che avrei, se potuto
era farlo; so che bastava poco,
pochino, un pezzo, anche covando
polvere sul tappeto.
Mai
ho sentito un discorso vero da
Quelli, trappole in viso o sedie
elettriche che parlandomi, pensavo
carne al chilo, mai al pensiero.
Elementare, figliolo! La
panna delle cose montava, erano
luci, grattaceli, scale interne, fili
d’erbe senza colore. Sempre
le stesse parole. Poi alla fine,
restava un volo digitale per aria.
«Che me ne faccio?» Si dicono
troppe balle.