ASSASSINIO A BORDO 10

Uno degli invitati più importanti che il My Flower aveva avuto a bordo era stato Charlie Spencer, il re della comicità anteguerra, dal cui posto nell’Olimpo cinematografico ancora non era stato scalzato. Ma si sa che il pubblico è volubile, e di certo Spencer non aveva più il grande successo di prima della guerra. Ciononostante era sempre ai primi posti del firmamento cinematografico, e la sua fama da tempo aveva varcato il resto del mondo occidentale. Abitava in una immensa villa alla periferia di Los Angeles provvista di un grande giardino e di un ampio parco. La villa era una costruzione su tre piani in stile inglese così come inglese era lui, che quando recitava da vagabondo viveva in stamberghe degne del suo personaggio, quando invece tornava Charlie Spencer era gentleman fino al midollo, come del resto pressoché tutti gli ex poveri divenuti ricchi. 

Sapevo che era tornato a Los Angeles dopo avere svolto una tournee in Inghilterra, sua madre patria, dalla quale se ne era andato ancora bambino. Non sapevo però se si trovava nella sua casa in quel giorno e a quell’ora, le dieci circa del mattino, in cui fermai l’auto non lontano dal cancello per poi tornare indietro e suonare il campanello. Vidi la porta della magione aprirsi, e un pinguino in alta uniforme uscirne per poi dirigersi al cancello. Per un istante pensai quasi Spencer in persona, perché man mano si andava avvicinando potevo rimarcarne i tratti fisici e l’età presunta. Quando però si fu appressato al cancello e potei quindi vederne il volto, capii che non era lui; d’altronde per quale motivo Spencer doveva avvicinarsi all’ingresso?

- Desidera, signore? - diomandò l’uomo che aveva parlato con accento tipicamente british. A meno che non fosse un attore fallito a cui il divo affermato e non più affamato avesse offerto una chance di lavoro.

- Mi chiamo Lew Miller, sono un detective privato. Vorrei poter parlare con Mister Spencer. Sono consapevole di essermi presentato qui senza avere prima fissato un appuntamento, per cui non pretendo di incontrarlo immediatamente; se però Mister Spencer può fissarmi un incontro, gliene sarò grato. 

Era un bel discorsetto, e citava a sufficienza l’ottimo Charlie Spencer per una buona parte dell’intero discorso, sebbene in modo discreto. L’uomo così rispose:

- Potrei chiederle quale sarebbe il motivo di questa sua visita?

- Certo. Dovrei discutere con lui del viaggio che ha fatto lo scorso aprile a bordo del My Flower.

Tacqui, e lui pure. Quindi il domestico disse:

- Andrò a riferire. Aspetti qui, per favore.

Mi voltò le spalle e si allontanò lungo il sentiero inghiaiato dal quale era arrivato. Io restai lì a godermi il sole i cui raggi roventi sembravano bruciarmi la carne come spiedini posti a girare sopra il fuoco di un barbecue, la lieve brezza che più di tanto come refrigerio non offriva a chi soffriva per il caldo patito, e i colori accesi della flora presente al di là del cancello. Ogni tanto sulla strada transitava un’auto, e fra queste ci fu anche un’autopattuglia della polizia, che mi vide e quindi si fermò. Ne scese un agente in uniforme, giovane di età, fresco forse di esperienza ma non certo di aspetto, visto che il caldo oberava pure lui. Ci guardammo. Lui disse, con il tono di voce che tutti loro acquisiscono dopo qualche anno di servizio: duro, inquisitorio, sospettoso.

- Cosa ci fa qui?

- Aspetto.

- Aspetta chi?

- Il ritorno del maggiordomo che è andato a riferire a Mister Spencer il motivo della sua visita.

- E lei chi sarebbe?

- Io sarei, o meglio sono, un detective privato di Hollywood - rivelai.

Si oscurò in viso, come se la sola parola concernente la mia professione non potesse trasmettere se non sfiducia nei confronti della Legge.

- Fuori i documenti - intimò.

Sfilai di tasca il portafoglio e da questo la copia fotostatica della mia licenza. Lui la esaminò con cura. Il suo collega era ancora al volante dell’auto, presumibilmente intento a godersi lo scarso refrigerio che le ventole del motore potevano offrirgli. Mi sembrava fosse un tipo grosso e grasso, anziano e demotivato, più disincantato - vale a dire scocciato - del suo giovane partner. Il quale mi restituì il documento di identificazione proprio nel mentre il maggiordomo faceva ritorno.

- Mister Gardner, tutto bene? – gli chiese l’agente.

- Sì, agente. Tutto bene. Il signor Miller è qui per incontrare Mister Spencer. Che accetta di riceverla - aggiunse poi rivolto a me. Il poliziotto salutò con un cenno della mano portata alla tesa del berretto e rientrò in auto. 

Io invece entrai nella proprietà dell’attore-regista-sceneggiatore-musicista-produttore alle calcagna del maggiordomo, il cui nome: come avevo appena appreso, era Gardner, al pari di quello dell’autore dei romanzi di Perry Mason. Solo che questo era un avvocato del diavolo, mentre lui un servo del put. 

Arrivati all’ingresso ecco farsi avanti l’illustre artista. Non era alto Spencer, solo un ometto. E non era neanche più giovane. Se non ricordavo male era a metà strada tra i cinquanta e i sessanta. I capelli erano bianchi e candidi come la neve appena caduta, l’anima probabilmente meno perché caduta già da molto tempo.
Si sapeva della sua predilezione per le adolescenti. Per lui la donna doveva essere una non donna, vale a dire una eterna ragazzina. Quella purezza che era candore, diciamo pure ignoranza nei confronti dell’esistenza, voglia di osservare il mondo con lo sguardo tipico delle adolescenti sembrava ammaliare gli uomini come Spencer, ma era un ammaliare che durava poco per ovvie ragioni, perché poi la ragazzina diventava una ragazza, la ragazza una donna e quindi l’incanto, almeno per lui, andava perduto. Per cui, via con la prossima.


Antonio Mecca

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