Dove sta andando l'urbanistica milanese?

È sempre più netta l'impressione che l’urbanistica milanese stia seguendo strade assai diverse da quelle che ha  tradizionalmente battuto.  

Non mi sembra che i meno abbienti, gli artigiani, i piccoli imprenditori, i piccoli negozianti messi in crisi da un'eccessiva  crescita dei centri commerciali, le famiglie senza casa o con alloggi inadeguati, i pendolari che molto contribuiscono all'economia milanese, siano al centro delle preoccupazioni della Giunta. Sembra invece che venga alacremente perseguito lo sviluppo immobiliare e un ecologismo assai più gradito a chi vive in centro e ha buoni redditi. Viene evidente in questo la trasformazione che i partiti storici della sinistra hanno subìto, soggetti a quel finanz-capitalismo, già previsto da Marx nel terzo libro del Capitale e ora divenuto egemone nel mondo.

Il “modello Milano”, portato avanti dalle ultime tre giunte, ha radicalmente modificato l’impianto storico dell'urbanistica  milanese.  

Basti dire che la legge 167/62 viene considerata come non più esistente, cosicché il Comune non adempie più all'obbligo di individuare le aree per l'edilizia residenziale pubblica, mentre la legge 167 è ancora vigente, anche il Lombardia. Nel frattempo le domande inevase di edilizia residenziale pubblica nel 2019 erano 25.192.  

Il PGT di Milano non ha posto alcun vincolo sulle aree urbane per realizzare servizi pubblici (scuole, unità sanitarie, case  popolari), quindi tutte le aree della città sono disponibili per l'edificazione privata. Lo si è visto quando la nuova sede della Città della Salute fu destinata a Sesto San Giovanni, perché le aree proposte da Milano non erano idonee. Per non parlare del sistema di perequazione urbanistica, fortemente vantaggioso per le operazioni immobiliari. Gli ex scali ferroviari dismessi sono stati destinati interamente all’edificazione privata, con residuali quantità di edilizia sociale, prevalentemente convenzionata.  

I servizi pubblici che si stanno insediando in quelle aree, vedi Brera, hanno dovuto rivolgersi ai privati che hanno acquisito le aree dalle FS. Poiché le aree di scalo sono adiacenti alle stazioni ferroviarie, del passante in particolare, sarebbero state perfette per localizzarvi grandi servizi pubblici affinché fossero accessibili in ferrovia da tutta la Lombardia. Grande occasione sprecata di dare un migliore assetto all’area urbana milanese-lombarda aumentando l'accessibilità e riducendo la mobilità autoveicolare. Al contrario, la nuova politica dei trasporti vede l'incentivo dato ai monopattini e alle biciclette, il restringimento dei calibri stradali, la riduzione degli spazi di parcheggio, a vantaggio di chi abita a breve distanza dalla sua destinazione, di chi abita nelle zone centrali, con grave disagio per i pendolari, gli artigiani, gli anziani e tutte le persone che per motivi professionali debbono usare l'auto.  

Ricordiamo che oggi sono i meno abbienti quelli obbligati a usare il mezzo proprio: quelli che abitano in zone non servite dal trasporto pubblico, gli artigiani, quelli che devono trasportare merci o attrezzature e altri per motivi lavorativi o famigliari, gli anziani. Tutto ciò induce a pensare che un’urbanistica eminentemente classista sia subentrata a quella storica della sinistra. Cercando di individuare i motivi profondi di questa trasformazione, si può dire che Milano abbia cambiato il modo di pensare  se stessa.  

Carlo Cattaneo definiva Milano come “nutrice di città” perché non tendeva, come tutte le metropoli, a ingrandire se stessa fagocitando le città vicine, costruiva invece stretti legami economici e produttivi con gli insediamenti circostanti, conservando la loro individualità e costruendo un sistema policentrico con la complessiva crescita di tutti gli insediamenti, sistema che oggi ha raggiunto dimensioni superiori a cinque milioni di abitanti.  

Milano, tranne modesti episodi, non ha mai voluto crescere in estensione e popolazione e non ne mai avuto bisogno; la sua  ricchezza deriva non solo dalla sua attività ma anche da quella del sistema insediativo che la circonda e dall’elevata mobilità complessiva, compresi i pendolari che lavorano in Milano e per Milano.

Oggi Milano sembra voler dimenticare questo patto non scritto con la circostante area urbana che ha dato origine alla ricchezza  di entrambe. Lo si vede dalla ricerca di sviluppi immobiliari sempre più cospicui, dall’incessante edificazione di grattacieli, dalla previsione  di aumento di popolazione inserita nei PGT.
Anche nel campo della mobilità Milano sembra volersi chiudere nei confronti del suo intorno: ha cancellato dai piani il progetto del secondo passante, che avrebbe reso urbana tutta l'area milanese-lombarda; cancellati i progetti stradali che  avrebbero migliorato l'accesso dei pendolari; revocati metà dei parcheggi previsti nel Programma Urbano dei Parcheggi. Per la mobilità urbana ha ribaltato la tecniche internazionali che vogliono le piste ciclabili e le zone 30 nelle strade di quartiere, andando invece a investire le strade interquartiere e di grande comunicazione. Il tutto con l'ingenua illusione di ridurre la  mobilità autoveicolare. 
Con tutto questo Milano sta disseccando la fonte da cui sgorga la sua prosperità: avere la potenza di una città da cinque milioni di abitanti, dovendone amministrare solo un milione e trecentomila. 
Il risultato di questa politica causerà la fuga all'esterno di attività e aziende, il probabile innesco di una bolla immobiliare, e  l’impoverimento complessivo dell’area urbana.  

È già successo in altre metropoli europee, ma la singolare conformazione urbanistica dell'area milanese avrebbe potuto evitare  questo destino.   Giorgio Goggi 

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