IL GIALLO DELLE 16:00

IL MANTELLO DEI LADRI
capitolo due

- Quindi, suo marito era ancora implicato in affari sporchi…
- Probabile - ammise.
Per qualche istante nessuno dei due parlò. Da fuori proveniva il traffico del tardo pomeriggio lungo l’Hollywood Boulevard. Uscendo dal lavoro, ci si affrettava per rientrare nella propria casa. Un drink sufficientemente alcolico, una cena frugale, un televisore da sintonizzare su programmi più spenti del televisore spento e il gioco era fatto. Chiesi alla mia cliente i suoi recapiti. Il suo diretto, primo fra tutti, poi quello del ristorante vietnamita e quindi quello della bottiglieria, che appresi trovarsi al numero 422 di una via di Los Angeles Ovest, sulla Ottava Strada. Mentre la mia nuova cliente abitava invece a Nort Beverly Drive.
- Forse le interesserà conoscere qual è la mia tariffa - aggiunsi.
- Quale è la sua tariffa? - chiese lei.
- Cento dollari al giorno, più le spese.
- Pensavo di meno.
- Io penso di più, invece – ironizzai.
- Va bene. Le firmo un assegno di cinquecento dollari avvertendola che posso arrivare a mille ma non oltre, sia che lei riesca a scoprire qualcosa sia che non ci riesca. Mi faccia in seguito sapere se intenderà proseguire nell’indagine o se invece è meglio piazzarci una pietra sopra.
La donna trasse dalla borsetta un libretto di assegni, ne compilò uno, lo staccò e me lo porse.
Notai che la banca in questione era la First National Bank of California.
- È la stessa banca di suo marito?
- Già. Abbiamo il conto corrente in comune, come già le ho detto prima.
- Speriamo che nel frattempo non lo abbia già prosciugato.
- Ho abbastanza riserve da poterla pagare ugualmente - mi tranquillizzò.
Si alzò, rimise il blocchetto degli assegni nella lucida borsetta di pelle di vernice nera e mi tese la mano. La presi e la strinsi.
- Arrivederci, signora. Mi metto subito al lavoro.
La accompagnai sulla soglia dell’ufficio e da lì su quella dell’anticamera. Il corridoio, sul quale si affacciavano, oltre alla mia, altre tre agenzie: quella del dentista, dell’avvocato e dell’assicurazioni, era in quel momento deserto. Solo la luce proveniente da vecchi globi gialli che illuminavano un pavimento rosso pompeiano e due pareti color caffelatte. Il soffitto era invece giallo-uovo, preludio alla frittata che spesso da quegli uffici i suoi occupanti erano soliti fare.
Tornai alla mia scrivania, aprii un cassetto, vi sistemai l’assegno e chiusi poi a chiave il tutto.
Il Ristorante vietnamita “Fiore di Loto” si trovava a Long Beach, in una via piuttosto distante dalla spiaggia, incassato come un pugile che si protegga dai pugni dell’avversario tra un negozio di elettrodomestici e uno di alimentari. Dietro la vetrina del primo alcuni televisori sintonizzati sul telegiornale trasmettevano immagini a colori della guerra in Vietnam tuttora in corso. Si parlava già da tempo dell’opportunità di sospenderla, ma fino a quel marzo del 1975 il conflitto ancora continuava, con il suo carico di morti sulla coscienza del Paese. I tre televisori accesi nonostante il negozio fosse ormai chiuso erano installati tra alcuni frigoriferi e lavatrici. I primi sembravano essere là per rinfrescare la memoria della gente, le seconde per ripulire il conflitto dallo sporco accumulato in tutti quegli anni. Le immagini a colori trasmesse erano prevalentemente sul verde, forse perché è questo il colore prevalente in quelle zone umide solcate da grandi fiumi. O forse perché è questo il colore del dollaro, che aumenta di valore anche e soprattutto grazie alla guerra. Quella guerra era sporca come il fango della giungla, ma così come una cura di fango produce benefici a un corpo stanco, allo stesso modo da tutto quel fango dentro il quale soldati di opposti schieramenti sguazzavano inzaccherandosi corpo e anima si producevano benefici per una parte del corpo politico-industriale dell’America, il cui motto è sempre stato “Dio è con noi”. E quando uno ha Dio dalla propria parte…
Il ristorante nel quale feci il mio ingresso somigliava a uno cinese così come un gemello monozigote somiglia all’altro suo gemello. Arredi simili al pari della musica trasmessa in sottofondo nonché profumi o, per meglio dire, odori provenienti dalla cucina pervadevano le due giovani donne munite di chimono provenienti da quelle terre lontane martoriate dall’ottusità umana. La sala conteneva una quindicina di tavoli che a quell’ora di sera: le otto e trenta, erano occupati per circa metà della loro capienza. Fui fatto accomodare a un tavolino a due posti munito di tovaglia di lino bianca con sopra ricamati numerosi piccoli fiori di loto. Nel mezzo era presente un cero di colore rosso simile a un polso insanguinato perché appena mozzato, che la graziosa cameriera che mi aveva accolto si premurò di accendere con un lungo fiammifero di legno. Dopodiché mi porse un menu alto quasi come un paravento cinese laccato di scuro dietro il quale erano messi a nudo i vari piatti che il locale cucinava. Gli diedi una rapida scorsa, per poi ordinare involtini primavera e una zuppa Pho, vale a dire zuppa di manzo e noodles. Il tutto accompagnato da una bottiglia di birra di una marca diversa dal mio cognome. La birra arrivò subito, a tutta birra, insieme agli involtini, e io ne approfittai per leggerne l’etichetta. Con l’ausilio di un paio di occhiali dalla montatura di tartaruga. L’imbottigliamento della bevanda era avvenuto a San Francisco, mentre l’importatore era stato Peter Anderson, il cui magazzino era situato a Los Angeles, La Brea Avenue. Arrivarono i miei involtini primavera, servitimi da colei che pareva la personificazione stessa della primavera. Vent’anni o poco più, bella e gentile come un fiore da poco sbocciato e femminile come solo le donne orientali sanno ancora essere per compiacere se stesse e gli uomini. Mentre mangiavo, mi guardai intorno. Dai tavoli occupati proveniva l’allegro ed educato brusio tipico delle conversazioni stuzzicate dalle stuzzicanti pietanze ordinate e indotte dall’ambiente che le produceva. A questo si univa il fascino dell’esotismo mescolato a una punta di erotismo provocato dalla femminilità e dalla bellezza, tipico nelle donne orientali. Quando chi mi aveva servito birra e involtini fu di ritorno con la mia zuppa, provai ad appoggiarmi al suo sorriso smagliante con il mio, di sorriso, di molto meno luminoso e soprattutto seducente.
- Fino a pochi giorni fa lavorava qui un’altra ragazza. Sa dove potrei trovarla?
- No, signore. Le piaceva, forse? - aggiunse maliziosa.
- Se non a me, a qualcun altro.
- No - ripeté. - Non lo so. Adesso, se mi vuole scusare…
La afferrai per un braccio, in parte coperto dalla manica di chimono scuro screziato di bianco.
- È importante, dolcezza. Quella ragazza frequentava quest’uomo - indicai approssimativamente il punto dell’etichetta della bottiglia dove si trovava stampato il nome di Peter Anderson.
- Entrambi sono scomparsi.
- Lei chi è? - chiese tra l’incuriosito e l’insofferente. - Un poliziotto?
- Lo sono stato a suo tempo. Ora sono un detective privato a tempo pieno.
La ragazza esitò. Poi disse: - Non so dove Lynn sia andata; davvero. Posso però darle l’indirizzo di casa.
- D’accordo.
- È in Ainsely Road, al numero 78.
Me lo segnai, la ringraziai e lei si allontanò, ben modellata dall’abito di seta. Io mangiai la mia zuppa, che si rivelò buona e gustosa. Presi un caffè all’americana, pagai il conto e lasciai una mancia più sostanziosa della cena appena ingerita. La ragazza mi ringraziò con un sorriso che evocava un giardino orientale fiorito sotto un cielo ammantato di stelle.

Antonio Mecca

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