Il Giallo Delle Ore 8

INDAGINE IN BIANCO E NERO
Capitolo dodici

Il treno partito due giorni prima da Los Angeles alle 10,50 del mattino sarebbe arrivato alla Grand Central Station alle 11,50 di quella sera, dopo ben 60 ore di viaggio. Mi incamminai lentamente, uscendo dall’hotel, lungo la 43 Strada, scendendo poi fino alla Avenue sottostante per risalire e accostare alla chiesa cattolica di Santa Agnese, alla quale non mancai di rendere visita ammirando ancora una volta i pregevoli dipinti presenti dietro l’altare maggiore. Poi uscii, e a un certo punto presi a destra per raggiungere la 45 Strada e la non lontana stazione ferroviaria, la famosa Grand Central Station con il suo onnipresente odore di carbone, ferro e cibo aleggianti sotto le sue volte, e il suo traffico umano formicolante. A ogni ora del giorno qualcuno partiva e qualcun altro pativa sofferenze varie, qualcuno fuggiva e qualcuno lo inseguiva, come avrei fatto io di lì a un’ora.
Trascorsi il tempo che mi separava da quel momento aggirandomi per il grande atrio con il suo caratteristico soffitto caratterizzato da un bel cielo stellato, oro su azzurro, che sembrava gravare su quella stanza quasi a invitare gli uomini a distogliere la loro attenzione dalle cose terrene per appuntarla su quelle del cielo, a sorvolare sull’umano per volare sullo spirituale.
Sapevo che i colori soprastanti erano blu e giallo oro perché lo avevo letto su una guida turistica, così come sapevo che Larkin sarebbe giunto con il treno di lì a un quarto d’ora. Per cui scesi le scale che portavano al piano sotterraneo, un luogo che se i colori che lo caratterizzavano non mi era possibile vederli, gli odori mi era possibile sentirli, odore di carbone, di sudiciume umano, di cibi grassi e fritti. Trattenendo la nausea crescente approdai al binario cinque, accingendomi all’attesa lì nei pressi. Quando l’argenteo convoglio arrivò, preceduto dal suono della sirena e dalla luce posta in testa alla locomotiva, l’adrenalina mi cominciò ad affluire più intensa. Poi il treno rallentò e si fermò, con uno straziante stridore di freni. Di lì a poco le porte automatiche dei vagoni si aprirono producendo il suono caratteristico provocato dal metallo che si flette come il mantice di una fisarmonica che si richiude su se stessa.
I passeggeri scesero, e il mio sguardo si appuntò attento su di loro. Individuai Larkin che reggeva due valigie sotto forma di trolley. Mi piazzai alle sue calcagna, stando attento a non farmi individuare, sebbene l’amico non mi conoscesse. Approdammo al piano superiore, e da qui nella strada esterna, dove una fila di taxi gialli era in attesa (sapevo che il colore era quello per averlo letto). Larkin salì su quello di testa, io su quello immediatamente dopo. Il mio autista era un nero sulla trentina, che quando mi fui accomodato sul sedile posteriore mi guardò e mi chiese dove doveva condurmi.
- Là dove andrà il taxi davanti al suo - lo informai.
Mi fissò, perplesso. Gli mostrai il tesserino riportante la mia foto a corredo della mia licenza.
- Detective privato?
- Già.
- E vedo qui che proviene dalla città degli angeli…
- Infatti.
Nel frattempo il taxi davanti a noi si era districato dal marciapiede, per cui anche il mio autista lo aveva imitato.
- Non gli stia troppo addosso - raccomandai.
- Okay.
Filavamo lungo le strade notturne di una città per me in bianco e nero traforata da luci colorate al neon o dal bianco acceso dei lampioni stradali, dalle luci lampeggianti dei semafori appesi sotto volte ad arco tipo aspersori dondolanti nelle mani di sacerdoti intenti ad officiare. Le luci di posizione delle non molte auto transitanti si mescolavano con quelle dei locali notturni dove una coppa di champagne annacquato valeva più dell’anima delle entraineuse lì presenti. Un odore tipico di grande metropoli invadeva l’abitacolo, un odore che sapeva di gomme di automezzi o di carrozzerie surriscaldate, di pattume accumulato e di polvere stratificata. Percorremmo la Quinta Strada, lunga e larga, dove edifici di grande altezza erano occupati da individui con alti conti in banca. A un certo punto passammo a fianco della celebre e celebrata gioielleria Tiffany, e il ricordo che tutti noi avevamo di essa mi procurò un pensiero più che piacevole legato alla meravigliosa protagonista del film e alle splendide musiche di Henry Mancini. Di lì a poco eccoci nei pressi della Little Italy, e di lì a poco ancora all’interno del celebre e celebrato quartiere caratterizzato dalla presenza nel corso degli anni degli emigranti italiani. Ancora percorsa da qualche solitario pedone, era affollata da clienti ai tavolini all’aperto sovrastati da festoni di luci colorate. Mi ricordai di ciò che il grande critico Edmund Wilson aveva scritto, molti decenni prima, riguardo i ristoranti italiani dove lui era solito recarsi per gustare pietanze che nella loro semplicità e bontà recavano con loro la cultura dei propri Paesi di origine.
Una cultura che noi del posto non avevamo perché privi di un passato storico che non ci aveva arricchito spiritualmente né intellettualmente.
Il taxi davanti a noi fermò a circa duecento metri dalla nostra auto. Larkin ne scese insieme al tassista che si recò al portabagagli per toglierne i due trolley del passeggero.
- Quant’è? - chiesi al mio autista dopo che si era fermato ad adeguata distanza. Pagai la somma richiesta aggiungendo una più che discreta mancia.
- Grazie, capo, e… buona caccia – augurò.

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