IL GIOCOLIERE DELLA LETTERATURA 22

Riemerse alla luce della coscienza gradatamente, ancora immerso nell’odore del narcotico. Era buio, un buio assoluto come il silenzio circostante.

Si mosse a fatica, scoprendo di essere disteso sulla schiena. Non era legato e immobilizzato, poté quindi sedersi, seppure a fatica. C’era un odore di terra umida, non il profumo piacevole della terra appena bagnata dalla pioggia e intrisa dai sapori della natura, ma un odore di chiuso, di muffa, di cemento.

Mosse le mani dopo avere allargato le braccia, e poté così toccare le due opposte estremità di una parete di cemento. Poi sollevò le braccia in alto, non riuscendogli di sfiorare un soffitto. Allora, seppure a fatica cercò di alzarsi in piedi. Vi riuscì, e ancora mosse in alto le braccia. E qui gli capitò di toccare una superficie, che al tatto gli parve di cemento.

Il buio era assoluto, così come il silenzio. Al polso non aveva più il suo orologio d’oro, che il quadrante: luminoso, avrebbe potuto aiutarlo a orizzontarsi. E nelle tasche non c’erano neanche il portafoglio e il telefonino.

Sempre sollevando le braccia a tastare la superficie sovrastante, Frédéric incappò in qualcosa di liscio, un qualcosa che al tatto gli sembrò marmo. E credette di capire. Una tomba. Si trovava all’interno di una tomba.

L’orrore della situazione lo sommerse poco per volta, fino a sentirsi mancare. Gli sembrò allora di faticare maggiormente a respirare, e un senso di soffocamento lo colse all’improvviso. Credette di scoprire dove lo avevano portato. Al cimitero di Saint-Chef, all’interno della propria tomba. Non era infatti in una bara, e sapeva che la parte sottostante della tomba era vuota, in attesa della calata della cassa con lui dentro. Allora, sentendosi sempre più Antoine, il commissario suo alter ego, prese la risoluzione di sollevarsi fino a toccare la parte marmorea della tomba. Ricordava, per averla vista una volta installata, come la copertura era stata piazzata. In maniera da scivolare orizzontalmente, come il coperchio di una scatola che scorra su una sorta di binario, quasi quello di una scatola di sigari. Solo che al suo interno non c’era tabacco arrotolato in cilindri da accendere ma un cilindro di carne arrotolato su se stesso che pur non acceso si sarebbe tramutato in fumo una volta morto: il fumo provocato dalla decomposizione.

Provò con una mano a spingere da un lato, senza che nulla succedesse. Poi tentò con due. Idem. Decise di prendersi un po’ di respiro. Cercò di vedere il lato comico della situazione, con lui che una volta morto per asfissia sarebbe stato alla fine: la sua fine, ritrovato cadavere, già installato dentro la sua casa definitiva, senza bisogno di casse in legno o in zinco o in altro materiale. Solo la propria carnaccia fredda a contatto con il freddo del cemento e della terra.

Rise, suo malgrado e senza neppure trovarsi a Belgrado. E la battuta lo fece ridere ancora, perché in lui l’infanzia non era mai terminata del tutto. Era quello un suo limite, forse, ma di certo si trattava anche di un punto a suo favore. Prese a frugarsi nelle tasche. Oltre ad essere spariti il portafoglio e il telefonino, mancava all’appello anche la penna. Non però il fazzoletto dentro al quale avrebbe potuto asciugarsi le lacrime o tapparsi bocca e naso per arginare quel tanfo di morte. C’erano anche le chiavi di casa, con presente fra loro un minuscolo coltello svizzero multilama comprato a Ginevra.

Sfilò la lama più lunga e larga e, una volta salito nuovamente in contatto con la sommità della tomba, infilò sotto la superficie marmorea. Quindi facendo leva su di essa, coadiuvò il tutto con le proprie spalle che spingevano in avanti, ipotizzando fosse quella la direzione giusta, visto che presumibilmente dovevano averlo calato con la testa guardava in direzione dei piedi della tomba.

Qualcosa si mosse, perché il sarcofago prese a scivolare in avanti. Frédéric prese respiro e quindi riprovò.

E questa volta la lastra non solo si mosse, ma prese anche a scorrere più a lungo, fino quasi a guadagnare rincorsa. Ed ecco dall’apertura rivelatasi arrivare un fiotto di aria fresca, e la luce dell’alba rosata riversarsi tutto intorno. L’apertura era sufficiente perché vi si potesse passare attraverso. Doveva però issarsi fino alla sua superficie, e con uno sforzo non da poco. Intascato il prezioso coltello si appoggiò con entrambe le mani sul bordo superiore della fossa, per poi imprimere ai fianchi una spinta che portò le sue gambe in superficie. Poi di lì a poco ricaddero. Allora, ebbe un’idea. Si sfilò la cintura dei pantaloni, ne fece un lazo e la lanciò sulla tomba accanto, facendola passare sopra la croce in pietra. Quindi, si aggrappò alla cintura e iniziò a issarsi. E alla fine riuscì ad emergere sul terreno soprastante. Così quella tomba che lui non avrebbe voluto accanto alla sua finì per rivelarsi preziosa. Rimase fermo per alcuni minuti, affranto per lo sforzo compiuto. Poi si avvicinò alla tomba del vicino, che era quella nella quale riposava suo cugino, morto due anni prima, e ne sfilò dalla croce la cintura. Perfetta evasione nello stile del suo commissario! Quindi si diresse con passo malfermo e allo stesso tempo sicuro verso la fontanella, lavandosi mani, viso e bevendo avidamente alcuni sorsi di quella fresca acqua. Infilò nuovamente la cintura nei passanti dei pantaloni e arrivato al cancello lo aprì e uscì. 


Antonio Mecca

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