ITALIANI: FORSE UN GIORNO

“Gli italiani sono irrimediabilmente fatti per la dittatura”.  “[…] gli italiani al bar, sono tutti dei grandi statisti, ma quando vanno in parlamento, sono tutti statisti da bar”. “Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi”. “L’Italia è una semplice espressione geografica”

Quattro aforismi sull’ Italia e gli italiani di quattro periodi storici differenti. Uno rassegnato; uno ironico; uno cinico; uno opportunista. Tutti ancora attualissimi.

Partiamo dall'ultimo, proferito nel 1847 dal principe Klemens von Metternich e calunniato ancor oggi per il suo sprezzo nei nostri confronti ma in realtà scaltro statista del suo tempo. Il nobile tedesco incoraggiava con melliflua maestria politica i piccoli “stati sovrani (italiani), reciprocamente indipendenti” a rimaner divisi e non dar retta a strampalate idee di unità nazionale che ne avrebbero compromesso il prestigio e il potere individuale. Peccato che lo scopo ultimo di Metternich fosse appunto mantenere il paese diviso per non far perdere all’Impero Asburgico la propria influenza sulla nostra penisola. Divisi equivaleva a dire più deboli. Più deboli significava più soggiogabili. In poche parole, “Divide et impera”: dividi e comanda (la regola dell'Impero romano).

Ma in fondo, come sostiene il primo aforisma di Ennio Flaiano, gli italiani forse amano essere comandati. Tutt'oggi molti di noi si vedono e si considerano un po’ come una micro nazione, talvolta sbruffona e troppo spesso narcisista, che può bastare a se stessa finché non arrivano i guai. E a quel punto, incapaci di guardare oltre il nostro naso e privi di un concetto di collettività, andiamo nel pallone, pregando che un messia giunga a risolvere la situazione al nostro posto. E’ già capitato e capiterà di nuovo, almeno finché non ci scrolleremo di dosso i secoli di divisione e gli sterili campanilismi che ci impediscono di comprendere la bellezza e i vantaggi di un’Italia unita. Un’Italia al riparo da cialtroni e megalomani che inneggiano a ciechi nazionalismi o da stolti che sventagliano chimere di anacronistico secessionismo in un mondo sempre più piccolo. Un‘Italia dove ogni singolo cittadino sia consapevolmente fiero di rappresentare lo Stato Italiano e di poter decidere il proprio destino, senza più necessità di abbandonarsi ai soliti e inerti chiacchiericci sull'incapacità della classe politica di turno.

Ne sapeva qualcosa Giorgio Gaber al quale appartiene la seconda citazione: al bar siamo tutti dei grandi statisti ma quando andiamo in parlamento siamo tutti statisti da bar. Una frase posta in altri termini tempo dopo da Romano Prodi:

”Gli italiani non sono meglio della classe politica che li rappresenta”. Ma essendo il professore un appartenente  all'odiata casta, dovette subire le funeste ire di noi poveri cittadini, calunniati e ingiustamente oltraggiati.

Mai andati forte col senso critico noi italiani. Pronti a metterci in cattedra e a puntare il dito contro tutto e contro tutti; capetti o leccaculo secondo la convenienza del momento; estremamente permissivi ed elastici con noi stessi ma giudici rigorosi e spietati verso gli altri. Posti davanti ai nostri limiti e alle nostre pecche, ci indigniamo, ci offendiamo, ribattiamo alacremente ma l’unica cosa che tralasciamo è domandarci se esse siano vere. È dura guardarsi allo specchio. Molto più conveniente e liberatorio, continuare a lanciar strali verso i politici piuttosto che mettersi in discussione; una sorta di secolare catarsi che ci consente d'esorcizzare le nostre debolezze senza mai doverle affrontare in prima persona o ancor peggio, di nascondere la nostra invidia dietro a un ipocrito senso di giustizia sociale.

Ce la faremo un giorno a considerarci italiani? Ad aver cura di questo paese come curiamo casa nostra e a rispettare i nostri concittadini come rispettiamo noi stessi? C’è da augurarselo se desideriamo un futuro. E solo uniti da uno scopo comune potremo riuscire nella titanica impresa di smentire il nostro amato ma disilluso Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo Gattopardo: gli dimostreremo  finalmente “che tutto dovrà cambiare, perché nulla rimanga come prima”.

                                                                                              Riccardo Rossetti


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