La coda del drago 13

Prendemmo la decisione, Bill e io, di lasciare il corpo del reato in un cassetto chiuso a chiave del laboratorio. Ci saremmo rivisti l’indomani mattina, intorno alle nove. Dopodiché ognuno di noi fece ritorno alla propria abitazione, per tentare di riposare. Mentre guidavo diretto a Hollywood, ebbi modo di pensare all’intera vicenda che mi aveva visto coinvolto. L’immagine di Angela aggredita da quel mostro dalla doppia faccia – buona e simpatica nei confronti del pubblico, feroce e spaventosa nei confronti delle sue piccole e indifese vittime – mi faceva stare male. Più ci pensavo e più mi veniva voglia di vomitare. Angela era stata un angelo di nome e di fatto, una povera creatura che dapprima era rimasta orfana di madre, e poi aveva perduto la vita per mano di un farabutto pedofilo, una infame carogna priva di scrupoli e di senso della pietà. Un simile individuo non meritava di poter continuare a vivere, non meritava neppure il carcere a vita perché chi agisce in maniera tale da escludere ogni senso di pietà, deve essere privato della vita mediante pena di morte.

Ero nel frattempo giunto nei pressi della mia agenzia, di cui il palazzo che la ospitava – illuminato com'era dai fasci di luce al neon provenienti dai vicini locali – assumeva i colori della bandiera italiana. Immaginavo gli emigranti italiani che nell’osservare la facciata provassero una mescolanza di orgoglio patriottico e di tristezza nostalgica, tanto che alcuni di loro finivano poi per tornarsene in Italia. Uno fra questi era stato Salvatore Ferragamo, abile calzolaio il quale aveva fatto fortuna dapprima a Santa Barbara e poi a Hollywood creando ottime calzature per molte delle dive del cinema, ma che però a un certo punto aveva deciso di fare ritorno in Italia stabilendosi a Firenze, la capitale italiana e non solo italiana del manifatturiero, la cui eleganza instaurata dai Maestri dell’Arte: Leonardo, Raffaello, Michelangelo aveva fatto proseliti fra i tanti che pur nel sottogenere si erano distinti mietendo allori.

Scesi dall’auto e tornai all’ingresso, dove aprii il portone di legno con la chiave e penetrai nell’ingresso.

La scala dai gradini di marmo era illuminata dalla calda luce rosata proveniente dalle lampade ad applique sistemate sulle pareti laterali. L’ascensore non si trovava a terra bensì: come si poteva notare sul quadrante luminoso orizzontalmente sistemato sopra la cabina, al terzo piano.

Mi fermai.

Poi, infilata la destra all’interno della giacca, la appoggiai sul calcio della pistola. Quindi, la estrassi: una 38 Special, ricordo della mia passata permanenza nel corpo di polizia.

Ne sbloccai la sicura, e con passo silenzioso scalai i tre piani che mi separavano dagli uffici della mia agenzia. 

Giunto a destinazione mi fermai. Dietro il cristallo bluastro della porta che immetteva nella sala d’aspetto non proveniva luce alcuna. Posai la mano sinistra sulla maniglia, abbassandola con cautela.

La porta, come sempre non chiusa a chiave, si aprì.

Avvertii immediatamente il puzzo di fumo di tabacco bruciato, tabacco che io per mia fortuna non consumavo né lui consumava me. Protendendo in avanti la pistola in direzione della porta comunicante con il mio ufficio, avanzai con lentezza. Giunto che fui di fianco alla porta, mi piazzai di lato e allungai la mano sopra la maniglia. Quindi con rapidità la abbassai e abbassandomi a mia volta mi catapultai nella stanza buia e silenziosa. Non potei fare a meno di sentire l’odore – il tanfo per me – di sigarette, qui maggiore che non nella stanza adiacente. 

Due lingue di fuoco immediatamente seguite dal fragore degli spari scattarono, giallastre, nella mia direzione, seppure ben sopra la mia testa. Esplosi a mia volta due colpi, subito dopo prendendo a rotolare alla mia destra, dove sapevo trovarsi la scrivania, che non solo era il mobile più notevole presente nella stanza ma anche quello più sicuro dietro il quale nascondermi, baluardo ai proiettili sparatimi contro.

Infatti la gragnuola di pallottole provenienti da due armi diverse riprese, senza però che riuscissero a colpirmi. Strisciando lungo il pavimento feci capolino per puntare poi la canna della 38 in direzione della sagoma illuminata dal riverbero degli spari. Premetti il grilletto una volta soltanto, basandomi sul bagliore prodotto dall’arma indirizzatami contro. Un grido di dolore seguito al mio sparo, seguito a sua volta dal tonfo metallico dell’arma caduta sul pavimento. L’altro compare si scagliò verso la porta spalancata, ed io lo seguii facendo in tempo a raggiungerlo prima che si abbandonasse il corridoio. Alla luce di questo potei distinguere una figura maschile sufficientemente alta sebbene tozza, che avvertendo la mia presenza si voltò con l’arma in pugno. Sparai per primo, un colpo diretto al suo torace. Urlò, come il compare, e smise quindi di agitarsi.


Antonio Mecca

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