MARZO 1978

Era l’attesa quello che più lo angosciava.

Quel restarsene fermi, ad aspettare. Avrebbe preferito di gran lunga l’azione immediata, l’agire al rimuginare, il gettarsi nella mischia invece che essere ostaggio dei propri contorti pensieri.

A pochi metri di distanza da lui vedeva gli altri componenti il commando, soli o in coppia, anch’essi ciondolanti nell’attesa spasmodica.

L’uomo nei pressi della siepe del bar era invece intento a fumare tranquillo, lo sguardo calmo, quasi fosse lì per una pausa-caffè, a godersi l’aria dolce di quel mite mese di marzo che anticipava e quasi inaugurava la primavera già da diversi giorni, come a volerne fare godere chi di lì a poco non sarebbe stato più presente. Era quella una via tranquilla di un quartiere tranquillo, una zona residenziale di graziose palazzine di tre-quattro piani immerse, diluite quasi, nel verde intenso della macchia mediterranea. Un bar chiuso da settimane su un lato della strada. Sull’altro, molto dopo, un chiosco di giornali presso il quale di tanto in tanto si fermava un passante. Più sopra ancora, in prossimità del bivio, una serie di negozi e di bar. Ed era lì al bivio che la moto di grossa cilindrata stava ferma già da un po’, con due uomini in attesa del segnale che arrivò, proveniente dalla fioraia ferma allo stop che conduce alla via Trionfale.

La moto partì arrivando all’incrocio con via Stresa, e lì si fermò. La 128 bianca con a bordo due uomini, parcheggiata in prossimità dello stop avviò il motore e si preparò ad immettersi in strada, gli occhi dell’autista fissi sullo specchietto retrovisore. Il ragazzo vide apparire la 130 blu dalla sommità della strada, seguita da presso da una Alfetta bianca. Tolse la pistola da sotto la giubba azzurra e fece un passo avanti, un passo ulteriore in direzione del baratro.

L’uomo dietro la siepe si tolse di bocca la sigaretta per metà consumata e la lasciò cadere a terra, mentre dalla borsa di tela già in precedenza aperta cavò fuori il mitra. La 128 si immise bruscamente, inaspettatamente, in strada, sbarrando il passaggio all’auto presidenziale e frenando di botto subito dopo, con le luci degli stop svitate e quindi non funzionanti. La berlina non poté evitare di andarci a sbattere contro. Il fragore del metallo contro altro metallo violentò la quiete del quartiere, provocando lo stesso sgradevole effetto che può causare una lama di coltello lacerante una tela che rappresenta un paesaggio idilliaco così da mascherante il paesaggio reale fatto di inferno e di orrore. Dietro la 130, l’Alfetta che la seguiva a distanza troppo ravvicinata frenò a sua volta, evitando solo di stretta misura il tamponamento. Gli occhi dei tre agenti a bordo erano fissi davanti a loro, ancora privi del benché minimo sospetto. L’autista della 128 innestò la retromarcia e tamponò a sua volta la 130, sollevando subito dopo il freno a mano e premendo sull’acceleratore con forza. La berlina risultò così trovarsi incastrata tra l’auto che la precedeva e quella che la seguiva. Il rombo rabbioso dei motori della 130 e della 128 unito a quello dei pneumatici mordenti l’asfalto pareva il doppio ringhio di due belve pronte ad avventarsi l’una contro l’altra, l’una caduta in trappola e l’altra pronta a sbranarla. Poi dalla siepe partirono le prime secche raffiche di mitra, grandine di metallo che colpiva altro metallo, sbriciolava i cristalli delle due auto intrappolate e penetrava nella carne e nelle ossa degli occupanti. I due uomini presenti nella 128 uscirono dall’abitacolo e portarono il loro contributo di morte mediante pistole semi-automatiche di grosso calibro. L’uomo che fino a pochi istanti prima aveva fumato placidamente, con la stessa apparente calma e sicurezza si spostò sulla fiancata sinistra dell’auto presidenziale, leggermente indietro rispetto agli sportelli anteriori per evitare di colpire la persona rannicchiata in posizione fetale sul sedile posteriore. Gli agenti della scorta, colpiti da una gragnuola di proiettili, sobbalzarono come in preda a scosse elettriche. Il killer colpì con il pesante calcio dell’arma il parabrezza scheggiato dell’Alfetta mandandolo in frantumi. Dopodiché mirò alla testa dell’uno e dell’altro occupante i sedili anteriori. Quando tutto fu finito, mezzo minuto dopo, l’uomo sul sedile posteriore della 130 venne fatto uscire bruscamente e trasbordato su un’altra auto di grossa cilindrata là parcheggiata. L’acre odore di cordite gravava nell’aria come quello di un incenso malsano durante la celebrazione di una messa sacrilega. I colpi di grazia esplosi contro i cinque angeli custodi il cui potere si era estinto nel momento stesso in cui avevano imboccato quella via, scorciatoia verso il gran salto nel vuoto, non avevano ucciso tutti. Alcuni erano ancora temporaneamente in vita, agonizzanti.

A cosa potevano pensare, se pure in quel momento pensavano?

Guernica. Il quadro. L’orrore che l’inferno bellico produce rappresentato dal pennello di un pittore folle che riproduce la pazzia dell’uomo sull’uomo, la realtà che si deturpa e smembra sotto i colpi delle armi da fuoco. Uomini contro altri uomini, cannibalismo feroce e forse insensato incensato però da altri uomini per i propri fini oscuri. E loro c’erano dentro in quel quadro maledetto, vittime sacrificali inchiodate alla parete di un’epoca che non conosceva pietà né tanto meno ragione.

Grida decise, ordini secchi di aride menti rese tali dal calore eccessivo della passione ideologica furono lanciati da alcuni componenti al resto del gruppo. Dopodiché tutti quanti presero i posti in precedenza stabiliti e le auto partirono, lasciando a terra cinque cadaveri straziati, decine di bossoli esplosi e centinaia di inconcludenti congetture future includenti uomini a cui proprio il futuro era stato scippato con ferocia assassina in quella luce intensa di primo mattino che sembrava contenere in sé la luce ormai spenta di esistenze ormai bruciate.


          Antonio Mecca

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