TRASFERTA AMERICANA 11

Me ne stavo seduto dietro la scrivania del mio ufficio sull’Hollywood Boulevard, intento a leggere il Los Angeles Examiner, e precisamente l'articolo di fondo che descriveva con sagacia come il nostro attuale capo dello Stato il fondo lo avesse toccato davvero in pieno. Pur divertente da leggere e presumibilmente da scrivere era comunque amaro da mandar giù, perché la descrizione fatta di quel paranoico biondo paglia che persino i bovini rifiutavano di brucare e gli asini poi, non avevano certo voglia di masticare un proprio simile, era davvero perfetta. 

Il campanello posto sopra la porta di ingresso suonò. Mi sollevai dalla poltroncina scura, aggirai la scrivania in legno chiaro, e mi diressi alla porta di comunicazione con l’anticamera. Quando l'ebbi aperta mi trovai di fronte a un uomo della mia età, della mia altezza, della mia stazza. Non però della mia etnia, dato che così come io sono inequivocabilmente nordamericano lui invece mi pareva inequivocabilmente europeo, dati i tratti latini presenti sul suo volto. Uno spagnolo, forse, o un italiano.

- Buongiorno - salutò in quest'ultima lingua. - Mister Stevens?

Annuii con la testa e confermai con la voce.

- In persona.

- Vorrei parlarle a proposito di un'eventuale indagine che intenderei affidarle - spiegò in un buon inglese.

- Okay. Si accomodi.

Rientrai in ufficio e gli indicai la poltroncina di fronte alla mia.

Richiusa la porta riguadagnai il mio posto dietro la scrivania, affinché si capisse che lì dentro ero io il padrone del vapore.

- Mi racconti pure tutto.

L'uomo spiegò chi era: un mio collega italiano, Solmi, che viveva e lavorava in Italia e si trovava in California: a Los Angeles, dal giorno prima. 

- La polizia ieri sera mi ha fermato e condotto alla Centrale affinché parlassi con il tenente Bassett, il quale mi ha consigliato o per meglio dire imposto di smetterla di indagare sul suolo americano, pena il subire ritorsioni varie. Ecco perché ho pensato di appaltare l’indagine a un collega del posto - aggiunse.

Feci scorrere lo sguardo sul ripiano della scrivania, e la mano sul passacarte. Quindi dissi:

- Per me potrebbe anche andare bene, se la tariffa che le presenterò andrà bene pure per lei.

- A quanto ammonta?

- Trecento dollari al giorno, spese escluse - lo misi al corrente.

- Va bene - rispose lui senza perdere tempo per riflettere.

- Okay - dissi. - Allora possiamo studiare la strategia da adottare. A Santa Monica Mister Santini è appurato che ci sia andato. Dove poi si è recato, non lo sappiamo. Così come non sappiamo il motivo preciso che lo ha indotto a venire in California. Lei dice di avere notato nella sua biblioteca molti libri polizieschi e - fra questi - due volumi di Raymond Chandler. Ora, Chandler ha descritto varie volte Santa Monica sotto i nome fittizio di Bay City, ed ecco che Santini si reca a Bay City-Santa Monica. Dove poteva poi recarsi? A La Jolla dove Chandler ha abitato per molti anni? A San Diego dove si trova la sua tomba? A Hollywood dove Marlowe aveva l’agenzia? E’ forse azzardato il pensare che un suo affezionato lettore abbia voluto rendere visita alla sua casa terrena e a quella invece eterna, vale a dire la sua tomba? Grave sarebbe il solo pensarlo!

Solmi approvò con la sua bella testa in stile neoclassico.

- Sì, ha ragione. Potrebbe essersi recato lì già dal giorno seguente il suo arrivo, subito dopo avere lasciato Santa Monica,   

- Converrebbe ci recassimo anche noi - proposi, - per tentare di saperne di più.

Così, una volta ottenuto un versamento con la sua carta di credito internazionale per la somma di seicento dollari corrispondente a un anticipo sul saldo, scendemmo al piano terra e da lì lo condussi alla mia auto, una Dodge blu scuro come un cielo senza stelle. L'unica stella che quel cielo ospitava ero io, una stella che si avviava ad essere cadente di lì a non molto. Per giungere a San Diego ci volle un'ora circa, e quando fummo sul posto presi per il Mount Hope Cemetery dove Chandler si trovava dal marzo del 1959. 

Durante il tragitto sulla Free Way Solmi ed io avemmo modo di parlare delle nostre rispettive sebbene non sempre rispettabili indagini, così che giunti a destinazione ci sembrò di conoscerci da sempre. 

Il cimitero presentava a destra dell'ingresso una bottega di fiorista che esponeva all’aperto numerose piante in vaso e fiori sciolti raggruppati in portaombrelli colmi d’acqua. Entrammo nel campo, chiedendo a un inserviente dove si trovava la tomba di Raymond Chandler. Lui ci indicò il percorso da fare. 

Le numerose tombe presenti dove gli assenti erano ospitati erano: come nei cimiteri di tutto il mondo, guarnite alcune di fiori freschi, altre ancora di fiori artificiali la cui vivacità più o meno intensa faceva capire da quanto tempo erano stati sistemati. Non poche, poi, erano sguarnite di tutto, presentando il nulla assoluto. Quella di Raymond Chandler: 23 luglio 1888 - 26 marzo 1959 non aveva nessuna foto che

campeggiasse sul vetusto frontale. C'era però un grande vaso di fiori ormai pressoché rinsecchiti presente ai piedi della tomba.  

- Potrebbe averlo portato Santini – disse il mio collega italiano.

Non dissi nulla. Presi poi una decisione. Estrassi lo smartphone dalla tasca e scattai una foto della pianta in questione.

- Vado a chiedere al fiorista. Vieni anche tu?

Solmi annuì.


Antonio Mecca




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