Recensione di poesia

David Keplinger, Mario Pera; "The Most Natural Thing – New American Poetry", EDB edizioni, euro 8.

L’ultimo volume edito da EDB, per la collana ‘Poesie di ricerca’, «The Most Natural Thing» vede la presenza di due autori d’oltreoceano: lo statunitense David Keplinger e il peruviano Mario Pera, entrambi tradotti per la prima volta in Italia.
La prosa poetica di Keplinger procedendo per via analitica e narrativa, canalizza la materia trattata in una «inquadratura» in cui il pensiero, e il discorso filtrano la realtà alla ricerca dell’esistenza: pur mostrandosi come «la cosa più naturale», nella contiguità della paratassi dove s’innesta l’a capo della poesia, creando l’incontro tra l’esperienza interna e l’esterno («Quando mi rivelerò al mondo, il mondo mi sarà rivelato»), questa esce fuori campo. La «vita», vera e propria «preda» nella scrittura del poeta nord americano, è sempre in fuga: un «simbolo» che disloca se stesso e il suo contenuto, assumendo molteplici forme tra i testi: «noce», «uovo», «dita a formare una sfera». Configurata in un costante travestimento, la vita appare in un’irriducibile distanza: inesperibile e resistente a ogni tentativo di “estrazione”(«“Un giorno anche questa sarà una favola,” dice mia madre da dietro la maschera di carnevale»). 
Il linguaggio è in mostra e messo a dura prova. La compressione a cui è sottoposto per riuscire a esprimere «un lampo di significato», come dice Alberto Pellegatta nell’introduzione, non esaurisce la chiamata in causa; è l’autore a denunciare e avvertire della sua duplice natura; in grado di unire in un inesausto processo che restituisce in una versione “discorsiva”, e accettabile, la percezione del reale («quando pronuncia le parole […] girini esplodono in rane, un fegato si rigenera, la carne esce dal corpo come un granello di polvere»), il linguaggio è capace, allo stesso tempo, di mettere in crisi quella stessa percezione, facendo emergere il «silenzio» che persisteva ignorato intorno alle parole («eccetto quando gli occhi stancano, e quando questo avviene ci accorgiamo del silenzio»). Non appena la «voce cantilenante» si interrompe, affiora: ogni elemento perde il suo legame con il resto, portando alla luce un mondo e una vita che non hanno alcun «bisogno di salvezza»; realtà ancora sfuggenti, impossibili da imbrigliare attraverso il linguaggio e la forma.
Si tratta allora di risolvere il paradosso di un’esistenza che si apre e si chiude in simultanea davanti alle «parole»; occorre trovare vie secondarie,«scorciatoie attraverso i campi», in grado oltrepassare la «versione dell’autorità» - chiara allusione ironica - secondo cui l’«unicorno era solo un rinoceronte muto».
Le tre tavole di Massimo Dagnino filtrano la materia scritta in una sorta di «anamnesi» operata con il linguaggio proprio del disegno: gli elementi raffigurati si polarizzano, entrando in un nuovo rapporto dove la parte biologica e quella minerale si influenzano e modificano reciprocamente. Un «anatomopaesaggio» prende vita,  denti di cavallo si conficcano nei palazzi residenziali (tavola centrale). Questa immagine può restituire l’approccio del secondo autore del libro. 
I testi di Mario Pera sono schegge di identità che evocano, nella distanza del frammento, un tutto che non può comporsi se non come immagine residuale; strofinandosi contro un corpo principale, che non appare mai sulla pagina, lo costringono a mostrarsi proprio nella sua mancanza: le poesie avviano un processo in cui si compie «il funerale del meno»: profilate come corpi secondari, si nutrono alle spalle di quel tutto, che allontanato nella sostituzione viene reso un «ignorato dettaglio/ dove cagano i piccioni» («ho finto di essere un altro nel mio corpo/ il mio nemico più acerrimo/ quello che quando mi rado/ (con il vapore della sua bocca/ sul mio lato dello specchio)/ mi chiama per nome/ (…)/ e il maledetto miracolo che mi tocca/ è appena un alito inavvertito/ sulla nuca»).
Lo stesso fenomeno accade anche a livello microscopico, dove la versificazione, nella sua stessa struttura e disposizione, influisce direttamente sulla materia espressa. Rispetto a quanto possa sembrare, il discorso poetico non è uniforme ma appare frammentato. La frammentazione non è causata dalla presenza di citazioni, o dagli inserti di plurilinguismo: «alias prospexi animo procellas/ beatus ille quem vivere in locus amoenus et carpe diem», queste sono, piuttosto, naturali escrescenze di un pensare in versi ai limiti dell’onirismo; è lo svettare di alcuni versi che mimetizzati perfettamente con gli altri, in realtà, spezzano il continuo del dettato: riassumendo e azzerando tutto ciò che si era presentato fino a quel punto («tutte le anime che nell’arena sono morte») si qualificano come la «carrozza vuota del mio padrone/quella che triste/ tira i suoi cavalli»; punti di rottura dove il ‘poema’ convogliato scompare, ripartendo in una nuova configurazione. Il poeta peruviano la prende d’assalto una convenzione di realtà («Dio/ devo osservarlo per iscritto/ per quanto dritto stia il mio collo/ sono ancora basso»), fino a cercare di esserne parte integrante: il «più caro figlio». 
Davide Cortese

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