Se i sindacati giocano solo in difesa rischiano l'emarginazione

Buon successo di mobilitazione e partecipazione per le manifestazioni di CGIL CISL e UIL del 18 Settembre; scarse però le indicazioni su quale sia la strategia con la quale il Sindacato si accinge ad affrontare la fase di enormi cambiamenti che stiamo vivendo e che diventerà ancor più totalizzante via via che si uscirà dalla crisi Covid. Le parole d'ordine dei comizi tenuti dai massimi dirigenti delle Confederazioni hanno oscillato tra ambizioni palingenetiche, all'insegna della necessità di dar vita ad un “Paese diverso”, alla rivendicazione di obiettivi ben noti (taglio delle tasse a lavoratori e pensionati, rinnovo dei Contratti Nazionali) senza però aggiungere un'idea, una proposta che possa dar vita ad una discussione concreta e far uscire dalle evocazioni ed enunciazioni di principio.
Una sola novità è stata lanciata dai palchi dei comizi: il Sindacato chiede di essere coinvolto nelle scelte sull'utilizzo dei Fondi Europei.  Una richiesta del tutto legittima (peraltro come quelle delle falangi di Associazioni “ascoltate” dal benevolo Presidente del Consiglio nel corso dei cosiddetti Stati Generali), che sollecita qualche riflessione. Il Sindacato andrà da Conte per presentargli un cahier des doleances e rivendicare i propri buoni diritti nella divisione del bottino, o per proporre operazioni condivise che, grazie alle risorse dell'UE, producano salti di qualità nel sistema produttivo, delle relazioni sindacali, nel welfare? In questa seconda ipotesi potrebbero emergere approcci riconducibili al mito della Concertazione, croce e delizia del Sindacato tra gli anni 80 e 90. In questo momento in cui occorre reinventare pratiche, regole, e aggregare consenso attorno ad obiettivi comuni, un quadro concertativo tra Governo e Parti Sociali parrebbe effettivamente utile! Ma il Sindacato (per ora occupiamoci di Lui) è disponibile veramente a fare concertazione? Perché si tratta di un processo in cui ciascuno degli attori prende e dà qualcosa.
Il paradigma nell'esperienza italiana resta ancora l'accordo di S. Valentino dell'84, in cui il Governo mise il blocco delle tariffe e dei prezzi amministrati, le Imprese il congelamento dei prezzi di listino, e il Sindacato la sterilizzazione di parte della Scala Mobile. Negli accordi concertativi successivi (Amato, Ciampi) il Sindacato mise la rinuncia alla Scala Mobile e il collegamento degli aumenti contrattuali agli indici di inflazione, nonché l'impegno a non contrattare due volte (a livello nazionale e aziendale) le voci retributive.
Da allora questa pratica è sfumata: l'accordo monstre col Governo D'Alema non produsse nulla, gli accordi riconducibili al Libro Bianco, siglati solo da CISL e UIL, restarono lettera morta.
L'unico vero grande accordo riconducibile ad una logica concertativa fu quello sulle pensioni con Dini.
Da allora il confronto tra Governo e Parti Sociali ha cambiato carattere: le Parti Sociali sono diventate sempre più restie a farsi coinvolgere in decisioni condivise, e più propense a rivendicare. Il Governo a sua volta ha ritenuto che fosse più efficace e veloce decidere (magari dopo averle “sentite”) senza dover concordare con le Parti Sociali. Il che in effetti non è privo di fondamento. Parlando di casa nostra, cosa avrebbe oggi il Sindacato da “dare” a un tavolo di concertazione? Avremmo potuto fare una accordo sull'art.18 (peraltro già prefigurato dall'accordo CISL UIL con il Governo Berlusconi, ma prontamente bocciato da CGIL e sinistra politica). Avremmo potuto fare un accordo sulla disciplina dei Contratti a Termine (sottoscritta da CISL e UIL e Associazioni Imprenditoriali) ma fu cassata da Cesare Salvi, a quei tempi Commissario del Popolo per il Lavoro.
Non abbiamo colto l'occasione di avere voce in capitolo nel Jobs Act se non per lagnarcene. Le rivendicazioni tangibili del Sindacato da molto tempo attengono alla sfera del “ridateci indietro”: le pensioni, la Cassa Integrazione senza limiti, l'art.18, il divieto di licenziamento (novità che ha ingolosito). Sulle pensioni sostanzialmente il Sindacato rivendica il ritorno al regime pre-Fornero.
Per la verità il Presidente di Confindustria ha proposto un terreno sul quale sarebbe praticabile una politica concertativa: la riforma del sistema contrattuale. Un terreno sul quale si potrebbero individuare target strategici: la promozione della contrattazione decentrata per connettere il più possibile la retribuzione ai risultati; il taglio del cuneo fiscale per abbattere il costo del lavoro e incentivare l'occupazione; il coinvolgimento e la responsabilizzazione dei lavoratori  rispetto ai risultati d'impresa; sono obiettivi dei quali Governo e Parti Sociali potrebbero ognuno assumersi una responsabilità, e sarebbero un moltiplicatore di occupazione e produttività. E che, alla luce delle recenti dichiarazioni di Van Der Leyden, potrebbero anche essere sostenute dalle risorse del Recovery Fund.
Ma il segnale che arriva dalle piazze sindacali non pare esprimere interesse. Un leader confederale ha declassato la contrattazione aziendale a “favola” sostenendo che si pratica soltanto nel 30% delle imprese. Il che denota innanzitutto una conoscenza approssimativa del mondo del lavoro: infatti quel 30% è composto in gran parte da imprese medie e grandi, con oltre 100 dipendenti, che fanno contrattazione aziendale in oltre il 70% dei casi, determinando il fatto che il 66% dei dipendenti dell'industria sono coperti da accordi aziendali, e lo stesso per il 48% dei dipendenti del terziario (dove le dimensioni d'impresa sono minori).Ma più preoccupante è il fatto che, anziché chiedersi se e come sia possibile aumentare la contrattazione decentrata, si dimostri di ritenerla irrilevante, manifestandosi scarsamente consapevole di quel che sta cambiando nel mondo del lavoro in relazione a innovazione digitale, smart working, ricomposizione delle catene del valore, modalità di erogazione della prestazione lavorativa.
Analogamente tradurre la questione del taglio del cuneo fiscale sul lavoro come una diminuzione delle tasse su lavoratori e pensionati mostra un sindacato ancorato ad una vulgata sostanzialmente populista, per cui solo dipendenti e pensionati pagano le tasse, ignorando (o fingendo di ignorare) i più recenti studi documentari su chi e quanto paga le imposte in Italia, e soprattutto travisando il fatto che la riduzione del cuneo fiscale ha come obiettivo la riduzione del costo del lavoro e non la riforma fiscale, che richiede altro respiro e altri interlocutori.
Credo che il Sindacato sia in procinto di doversi giocare una partita decisiva, per decidere se saprà rappresentare il lavoro in un quadro di relazioni che cambia con rapidità implacabile o se resterà asserragliato in difesa del Fort Apache delle relazioni sindacali del buon tempo che fu.

Claudio Negro
Fondazione Anna Kuliscioff.

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