IL RISORGERE DEL MALE 15

Uscito dall’hotel Bristol camminai fino all’angolo con la Sesta Strada e mi diressi in un Internet café, occupando una postazione libera. Seduto davanti al computer, digitai il nome George Walkermann. Apparve una pagina intera di informazioni, sormontata da una fotografia in bianco e nero. Questa ritraeva la faccia rubiconda di un uomo sui sessant’anni, gli occhi dai quali emanava una luce di soddisfatta crudeltà, la bocca dalle labbra carnose e lucide di un maiale che si è appena sbafato l’intero trogolo. Le note sottostanti raccontavano che Walkermann era nato a Mobile, in Alabama, cinquantotto anni prima, per poi trasferirsi a Montgomery, la capitale. Qui aveva preso a lavorare in varie fabbriche fino a diventare il proprietario di diverse di esse, tutte quante nel ramo redditizio degli elettrodomestici, raggruppandole sotto il marchio Altemar. 

Walkermann era di origine tedesca: i genitori berlinesi avevano abbandonato la Germania nel 1944, quando il padre Hans si era deciso a lasciare il Paese martoriato dalla guerra per rifugiarsi in Argentina. Qui, con l’aiuto dell’Odessa, l’organizzazione di assistenza delle ex SS, aveva trovato lavoro in un macello comunale per poi emigrare alcuni anni dopo nell’America del Nord, in Alabama. Aveva poi fatto parte del famigerato Ku-Klux-Klan, l’organizzazione razzista nata all’indomani della fine della vergognosa guerra di Secessione americana per combattere le rivendicazioni dei neri da poco liberati, il comunismo e l’ebraismo. I suoi membri erano tutti Whasp: anglosassoni bianchi protestanti. Si riunivano incappucciandosi la testa, bruciavano croci e crocifiggevano o impiccavano i neri perché fra i membri della comunità nera si diffondesse il terrore. Anche il piccolo George, nato in America, terra di ampi spazi, ma cresciuto con le idee dei suoi genitori ristrette nei piccoli spazi della loro ancor più piccola mente, una volta raggiunta la maggiore età era entrato a far parte del Klan, distinguendosi per la sua zelante militanza e per il proselitismo che era riuscito a fare. George era anche un neonazista, ma la polizia non era mai riuscita a incastrarlo forse anche perché non lo desiderava neppure. 

In quel Paese, come del resto in molti altri Stati del Sud, la gente e le istituzioni erano razziste fino al midollo. Neanche passava loro per la testa che non erano stati gli africani a voler approdare in America, ma era stata una parte dell’America a volerli perché lavorassero come bestie in regime di schiavitù. Sembrava che dopo l’abolizione della schiavitù i neri fossero i responsabili della perdita dei posti di lavoro che colpiva la maggioranza della popolazione bianca e dell’aumento della delinquenza. E, con essi, i comunisti che li appoggiavano e gli ebrei che si erano impossessati dei posti-chiave nella Società. 

L’FBI, durante l’era Hoover-Tolson, aveva chiuso entrambi gli occhi sui loro misfatti come già aveva fatto nei riguardi dei boss della mafia americana, i padrini di Cosa Nostra dai quali riceveva favori. 

George Walkermann aveva avuto vita facile col suo business di attivista razzista attaccato soltanto da qualche giornale progressista, da qualche scrittore democratico e da qualche piccola tv locale.
Il sito internet terminava descrivendo la zona residenziale dove risiedeva con moglie e figli alle porte della capitale. Chiusi la pagina di Google e andai a pagare alla cassa quei pochi centesimi. 

Tornai a casa e chiamato un taxi, mi feci condurre all’aeroporto.
Antonio Mecca