Andre Zanzotto

di Alberto Pellegatta

Andrea Zanzotto è stato uno dei più grandi e innovativi poeti italiani, artefice di una ricerca linguistica reale e non solo di facciata. Poeta delle campagne, ma non per questo meno critico o di minore spessore filosofico, è nato in Veneto, a Pieve di Soligo nel 1921, ed è morto a Conegliano nel 2011: «qui non resta che cingersi intorno il paesaggio», scrive. Laureato in Lettere a Padova nel 1942, è stato insegnante di scuola media allontanandosi raramente dall’amato altopiano. La robusta cultura internazionale, però, lo proiettano da subito ben oltre i confini nazionali. Molti i libri fondamentali che ha scritto, ne citiamo alcuni: Dietro il paesaggio (1951), Vocativo (1957), IX Ecloghe (1962), La Beltà (1968), Gli sguardi, i fatti e senhal (1969), Filò (1976), II Galateo in bosco (1978) e Fosfeni (1983). Le prose scelte sono state raccolte da Mondadori anche nei Meridiani (1999). Come scrive Carlo Ossola: «I “poli contrapposti della tradizione letteraria nel nostro Novecento” -Artaud e Mallarmé- indicati dal poeta nella sua Testimonianza su Ungaretti sono ben presenti anche nella sua propria poetica, nella sua lingua: da un lato l’impegno strenuo di Mallarmé a risolvere il mondo in scrittura, “a cancellare la propria corporeità spostandola tutta sul lato della dissoluzione del corporeo nel verbale”… dall’altro la matericità di Artaud, il testo come “spostamento, slogamento, lacerazione di elementi corporei”». 

In un recinto di libertà la poesia di Zanzotto ha un posto speciale insieme alla natura parlante. Quando saremo in grado di approfittare pienamente della libertà, saremo anche più responsabili verso la cosa pubblica e più parteci delle decisioni, esisterà un galateo. Il primo testo che proponiamo è un piccolo manifesto di poetica da Dietro il paesaggio, mentre il secondo proviene proprio da Galateo del bosco ed entra potentemente in questi temi di libertà. Il terzo è tratto, infine, dalla raccolta La beltà.  






ORMAI 

Ormai la primula e il calore 
ai piedi e il verde acume del mondo 


I tappeti scoperti 
le logge vibrate dal vento ed il sole 
tranquillo baco di spinosi boschi; 
il mio male lontano, la sete distinta 
come un’altra vita nel petto 


Qui non resta che cingersi intorno il paesaggio 
qui volgere le spalle. 





Rivolgersi agli ossari. Non occorre il biglietto. 
Rivolgersi ai cippi. Con il più disperato rispetto. 
Rivolgersi alle osterie. Dove elementi paradisiaci aspettano. 
Rivolgersi alle case. Dove l’infinitudine del desio 
                              (vedila ad ogni chiusa finestra) sta in affitto. 


E la radura ha accettato più d’un frondoso colloquio 
ormai, dove, ahi, 
si esibì la più varia mostra dai sangui 
il più mistico circo dei sangui. Oh quanti numeri, e rancio speciale. Urrah. 
Vorrei bucarmi di ogni chimica rovina 
per accogliere tutti, in anteprima, 
nello specchio medicato d’infinitudini e desii 
di quel circo i fermenti gli enzimi 
dentro i succhi più sublimi dell’alba, dell’azione, in piena diana. E si va. 
E si va per ossari. Essi attendono 
gremiti di mortalità lievi ormai, quasi gemme di primavera, 
gremiti di bravura e di paura. A ruota libera, e si va. 
Buoni, ossari – tante morti fuori del qualitativo divario 
                                 onde di sale a sicurezze di cippo, 
fuori del gran bidone (e la patria bidonista, 
che promette casetta e campicello 
e non li diede mai, qui santità mendica, acquista). 
Hanno come un fervore di fabbrica gli ossari. 





IV 


E ho mangiato anche quel giorno 
- dopo il sangue – 
e mangio tutti i giorni 
- dopo l’insegnamento – 
una zuppa gustosa, fagioli. 
Posso farlo e devo. 
Tutti possono e devono. 
Bello. Fagiolo. Fiore. 

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