LA CRISI DELLE EDICOLE

Sono molte e diverse le motivazioni che ne hanno suscitato la necessità di chiuderle

Mi sono chiesto tante volte passando accanto a diverse edicole chiuse di Milano cos’è successo, come mai questa catacombe? Certo: la crisi economica; la gente legge sempre meno quotidiani e riviste per l'avvento impetuoso del digitale; i libri proposti costano in complesso sempre di più e si fa fatica ad arrivare alla fine del mese.
Ma non essendo soddisfatto di queste semplici spiegazioni, ho cercato di andare in fondo e ho trovato altre motivazoni.
Intanto bisogna notare che la frana delle edicole è partita dieci anni fa con la crisi economica. L'anno scorso si sono registrate 750 chiusure, si può dire 2 decessi al giorno, senza contare le edicole che non sono state registrate. Ma un preannuncio della frana si è avuto alla fine anni novanta con la riforma della liberalizzazione di Pier Luigi Bersani, che diede la possibilità di vendere giornali e riviste  anche a bar, supermercati, pompe di benzina, autogrill, evento che certamente non ha contribuito a migliorare il reddito degli edicolanti. Infatti, allora i giornalai a fine mese portavano a casa circa 3 milioni, ora a mala pena riescono a guadagnare 35 euro al giorno, secondo Giuseppe Marchica, segretario del Sindacato giornalisti della Cgil , circa mille euro al mese.  Al momento del pensionamento, prima della riforma di liberalizzazione, i giornalai riuscivano a vendere le proprie edicole a 200 - 300 mila euro, una specie di liquidazione per chi faceva un lavoro duro, alzandosi alle 4,30 ogni mattina. Oggi è molto difficile vendere o non si vende per niente. Pur con qualche espediente per sostenere i giornalai, come vendita di cassette, libri, giochi per bambini, non è migliorata la situazione. Se si guadagna poco le edicole irreparabilmente chiudono; da 36 mila nel 2001 si sono ridotte a 15.126 nello scorso anno, secondo i dati della Camera di Commercio. Fa un certo effetto quasi come un miracolo, la notizia pubblicata sulla Nuova Sardegna dell'apertura il 23 aprile di quest'anno di una nuova edicola a Posada (Nuoro), un Comune di 3 mila anime. Segni di resistenza anche a Firenze dove negli ultimi mesi sono state aperte nove edicole.
La sferzata contro i rivenditori proviene anche dai monopolisti della distribuzione, che oltre a dettar legge su cosa vendere in base ai riscontri di cassa, danno all'edicolante una quota fissa del 18,70 % su ogni pubblicazione venduta. I libri, le riviste scientifiche e di approfondimento costano certamente di più, ma la gente acquista maggiormente rotocalchi popolari, riviste di gossip da 1-2 euro, magro bottino per chi siede ore e ore in quel chiosco angusto.
Ci sono stati alcuni tentativi legali per sollevare le sorti del rispettabile mestiere dell'edicolante?
Tentativi si sono succeduti fin dopo la riforma Bersani. Nel 2001 si propose di far vendere agli edicolanti le sigarette, ma si opposero strenuamente le associazioni dei tabaccai. A Roma l'allora sindaco Veltroni consentiva di vendere i biglietti del teatro e dello stadio, giocattoli, pellicole fotografiche, mentre ovunque si è incominciato a vendere biglietti degli autobus e talvolta anche biglietti della lotteria fino alla prassi attuale di vendere altri piccoli articoli di grande consumo. Dieci anni dopo Veltroni a Milano hanno proposto di trasformare le edicole in infopoint per spedizioni pacchi e corrispondenza e in Liguria qualcuno ebbe l'idea di trasformarle in pasticceria. Sempre a Milano recentemente si è tentato di dar vita alle edicole quali luoghi per degustare i cibi tradizionali. Non mancano altre idee, specialmente nelle grandi città, dove la crisi si risente maggiormente. In alcuni casi le innovazioni coraggiose partono dagli stessi interessati per preservare il loro non proprio antico mestiere. C'è chi resiste affidando la bottega dei giornali a stranieri che riescono a rivitalizzarla introducendo altre pubblicazioni e magari prodotti di souvenir e di richiamo.
Rimane comunque l'esigenza di un’iniziativa pubblica per risolvere il problema della crisi delle edicole e dei giornalai, collegata pure alla crisi della carta stampata.
Nel 2012 sotto il governo Monti Paolo Preluffo, sottosegretario alla presidenza con delega all'editoria, fece un decreto che rendeva obbligatorio dall'anno successivo la tracciabilità delle vendite e delle rese dei giornali con l'introduzione di un sistema informatico che avrebbe messo in rete tutta la filiera: editori, distributori e rivendite. Ma per anni non si è fatto niente per mancanza di un decreto attuativo previsto dallo stesso decreto e per le continue proroghe. Alla tracciabilità obbligatoria si è arrivato solo cinque anni dopo, ma non all'informatizzazione, che aprirebbe a nuove possibilità di business editoriali, quali abbonamenti elettronici, magari con ritiro delle copie di carta presso gli edicolanti. Le stesse edicole potrebbero confluire nel servizio pubblico in modo più organico e meno sporadico, come ormai da tempo si fa in alcune città come Genova, Firenze, Modena e Torino dove accordi con le Amministrazioni comunali hanno permesso ai giornalai il rilascio di certificati anagrafici. Purtroppo occorre ancora ricordare che il progetto di informatizzazione non è mai decollato anche per non ledere gli interessi dei distributori, i quali per non perdere la posizione dominante nella contrazione attuale del mercato si rifanno sull'anello debole dei rivenditori,trasformandosi così in monopolisti locali.
Se lo Stato non combatte i monopoli e rimane inattivo, il debole potrebbe soccombere.
Luciano Marraffa

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